Erano rimasti nei nostri pensieri l’Algeria ed il Tassili, ritornavano spesso quegli spazi sconfinati, il deserto, i panorami di indicibile bellezza e quel cielo cristallino.
Lo scorso viaggio in quel paese, fortunatamente ancora fuori dai percorsi turistici, avvenuto nel Dicembre 2007, ritornava spesso ad ogni telefonata fra chi la volta scorsa c’era stato e ogni volta che si guardavano le foto incredibili dell’arrampicata sul Tassili, delle misteriose pitture rupestri e di Moloud, la straordinaria guida che ci aveva accompagnato. Si parlava spesso, sopratutto con Alberto e Maurilio di un possibile ritorno in quello straordinario paese, era rimasta in sospeso l’antica pittura dell’”altro” Marziano di Jabbaren, alcuni crateri meteorici ed altre zone di grande interesse, occorreva tornare, trovare il periodo giusto, procedere assieme al CTM Robintur nella difficile organizzazione e soprattutto ricontattare Moloud.
Alla fine ciò che tanto avevamo desiderato si concretizza, la scusa astronomica è ancora una volta quella della pioggia delle Geminidi dicembrine, il periodo da’ garanzie come la scorsa volta di giornate secche e serene, anche se fresche, il vecchio Moloud è felice di riaccompagnarci e il CTM assieme al Tucano viaggi, si occupa della parte logistica. Nessun problema per il Tassili, ma sappiamo che ci saranno difficoltà nella zona dei due crateri di Amguid e Tin Bider, zona militare che è stata interdetta al turismo dalle autorità, speriamo comunque di farcela e confidiamo in Moloud.
E così il mattino del 9 Dicembre ci ritroviamo in 7 all’aeroporto di Malpensa, oltre al sottoscritto, altri 2 reduci dello scorso viaggio in Algeria Maurilio Grassi e Alberto Palazzi, Paolo Minafra della Lunar Society, vecchia conoscenza iscrittosi all’ultimo convinto dall’entusiasmo di Bruno Giacomozzi anch’egli del gruppo, Giorgio Bernaschi con noi l’ultima volta in Mongolia e Vanna Civolani che non vedevo dal viaggio in Marocco. L’aereo dell’Air Algerie è puntuale e alle 16.30 partiamo con destinazione Algeri, siamo ragionevolmente rilassati, rimane il dubbio sulla strumentazione astronomica: ce la confischeranno come la volta scorsa?
Tra l’altro mi sono arrischiato a portare il Dobson, speriamo bene…All’arrivo ad Algeri i controlli sono numerosi, ma la strumentazione passa senza problemi. Ottimo! Affrontiamo il solito corridoio all’aperto che congiunge l’aeroporto internazionale con quello nazionale, sempre con la scorta di scocciatori alle prese con tentativi di cambiare gli euro in dinari e prendiamo l’aereo per Djanet la cittadina ai piedi del Tassili, in cui arriviamo, dopo uno scalo a Tamanrasset quando sono ormai le 3 di notte.
Ad attenderci all’aeroporto c’è Moloud, ci si saluta e ci si abbraccia da vecchi amici, gli presentiamo i nuovi arrivati e veniamo condotti ai nostri alloggi: un villaggio di Tucùl in pieno deserto, sistemazione non eccezionale, ma ci si adatta. Verso le 9 del mattino apro la porta ed una giornata radiosa scalda le membra un po’ intorpidite dal freddo. Moloud e Beikha, l’altro autista dei due fuoristrada a disposizione ci hanno preparato la colazione sotto una veranda, ma io mi precipito fuori dal cancello ad ammirare lo splendido panorama che ci circonda.
Nel silenzio più completo, ogni tanto solo qualche folata di vento, facciamo colazione, poi attendo Moloud per l’analisi del programma dei prossimi giorni. Si siede stancamente, prende in mano il foglio e comincia a scuotere la testa: nella zona di Amguid, ci dice, nel 2003 sono stati uccisi dai predoni alcuni turisti tedeschi ed oggi il cratere ospita una guarnigione militare che proibisce qualsiasi ingresso ai turisti. Per Tin Bider il discorso è diverso, è fattibile, ma secondo lui ci siamo sbagliati, il vero nome della località non è Tin Bider, ma Tid Bar e lui non ricorda crateri nelle vicinanze.
Con questi dubbi in mattinata visitiamo il mercato di Djanet, torniamo per il pranzo al nostro villaggio e nel pomeriggio facciamo un’escursione nel vicino Erg d’Admer, per famigliarizzare col deserto, gli spuntoni di roccia e le incisioni rupestri. Vicino a due alti pinnacoli osserviamo infatti i “ buoi all’abbevverata”, petroglifi che la scorsa volta non avevamo visto. Siamo nella regione di Terarart, una splendida zona simile all’Akakus libico e i componenti della spedizione sono entusiasti. Torniamo in serata nuovamente al villaggio e ci prepariamo alla levataccia dell’indomani, ci aspetta la salita sul Tassili e andiamo a letto molto presto.
Alle 5 dell’11 Dicembre suona la sveglia il cielo è limpido e pieno di stelle e l’aria è fredda, carichiamo i bagagli sulle jeep e Moloud si raccomanda di portare il minimo indispensabile per non appesantire gli asini. Guardo il borsone del Dobson con un po’di rimorso. Dopo una mezz’ora siamo al campo base ai piedi dell’immenso plateaux del Tassili , dove i cuochi e gli asinari ci stanno attendendo accovacciati attorno ad un fuoco per riscaldarsi.
Bruno, con un passato di alpinista alle spalle non vede l’ora di iniziare il trekking, Vanna è euforica, Paolo un po’ meno e Giorgio con una sciarpa beige avvolta attorno alla testa e cappello a tesa larga si aggira perplesso in quella landa desolata. Il sole sorge ed illumina le cime dei monti simili alle “mesa” della Monument Valley, è arrivato il momento di partire, Moloud ci presenta la guida e dopo un’ultima raccomandazione all’asinaro di trattare bene il Dobson e all’asino di non cedere sotto al peso dello strumento, la spedizione si mette in marcia.
Accidenti, i 20 Kg dello zaino viola dell’inter-rail del 1993 riesumato per l’occasione, contenente tra le varie il prezioso specchio da 25 cm si fanno sentire. Dopo 10 minuti Giorgio è già fermo: “ A ragà, me fermo ‘nattimo e ve raggiungo!” Non abbiamo ancora iniziato la vera salita, ma dopo una mezz’ora e dopo altre svariate soste di Giorgio, la guida mi ferma dicendomi che se continuiamo così non arriveremo mai in cima. “Max che succede?” mi chiedono Maurilio e Alberto, con gli inseparabili bastoni da trekking. Mi avvicino a Giorgio che a testa alta con la sua incredibile ironia da romano verace sbotta: “ Che avete deciso, me seppellite qua?” A malincuore gli rispondo che per il suo bene e per quello della spedizione, purtroppo è meglio che ritorni a Djanet con la guida, noi proseguiremo con il cuoco e ci rivedremo tra due giorni al campo base. La decisione è presa, siamo tutti rattristati dalla defezione del nostro compagno di avventura, ma dobbiamo proseguire.
Arriviamo ai piedi della scarpata: qui il discorso si fa tosto. Nel corso dell’arrampicata Bruno sorride, completamente a suo agio, Alberto discorre e filosofeggia con Maurilio, un po’ in italiano, un po’ in francese, Vanna è ben inserita nel gruppo ed ha un buon passo, mentre Paolo chiude la fila imprecando su chi gliel’ha fatto fare.
Il percorso per Jabbaren è duro ma più breve di quello che nel 2007 ci aveva portato alle località di Tamrit e Sefar e a mezzogiorno siamo già sul plateaux a 2000 metri di altezza. E’ ancora una volta emozionante perdere lo sguardo nell’arso e brullo pianoro del Tassili, un paesaggio da film di fantascienza, tra spuntoni di roccia variamente inclinati che emergono assurdamente dalla colata piatta di basalto.
Tutto il gruppo si concede una pausa per ammirare il panorama, poi di nuovo in marcia e dopo un’ora arriviamo a Jabbaren, la nostra meta per il campo, una serie di strane e basse cupole di roccia, quasi delle immense bolle di magma raffreddatesi velocemente. In alcune di queste cavità, non appena arrivano gli asini, piazziamo le nostre tende.
Il Dobson, è giunto integro sul Tassili, un risultato storico, non mi pare che sia mai arrivato quassù uno strumento astronomico di tali dimensioni. Dopo pranzo, quando i lunghi tralicci di metallo lucente del telescopio montato splendono al sole, un moto di orgoglio e soddisfazione è inevitabile. Scegliamo la postazione osservativa: un ampio e sgombro orizzonte è a nostra disposizione, soprattutto verso sud, non ci resta che attendere il buio. Mentre scruto all’infinito, il mio sguardo viene attirato dalle chiome verdi di due alberi non troppo distanti: non c’è dubbio, si tratta sicuramente di cipressi millenari, come quelli visti la scorsa volta a Tamrit. Mi precipito a fotografarli con la luce bassa del tramonto e poi invito tutti a raggiungermi su una vicina altura per ammirare i colori del crepuscolo serale.
Mentre ad est si alza una vividissima e azzurra ombra della Terra, sovrastata da un’altrettanto vivida Cinta di Venere di colore arancione, provo a riprendere il green flash del sole e Paolo e Vanna scovano Mercurio, ancora nei bagliori del tramonto. Qualche decina di minuti, poi diventa impressionante la luce zodiacale, un fuso iridescente che ci accompagnerà tutte le sere di questa nostra permanenza algerina. Mentre scendiamo dall’altura il cielo si illumina di migliaia di stelle, con la Via Lattea invernale che forma una V con la luce zodiacale: che spettacolo! Ancora una volta il cielo algerino non tradisce. Consumiamo la cena: un brodino con un po’di pane, qualche dattero e un ottimo te’ alla menta preparato alla maniera Tuareg, mentre la guida arrivata poco prima ci rassicura sulle condizioni e sulla sistemazione di Giorgio.
Siamo pronti per le osservazioni. Alberto sfodera il suo Spotting scope, Maurilio il binocolo e raggiungiamo il Dobson, ma prima di mettere l’occhio all’oculare, ci togliamo la soddisfazione di rintracciare ad occhio nudo, questa volta senza possibilità di errori, il Gegenschein, la contro-luce zodiacale, visibile come un tenuissimo chiarore circolare localizzato nel punto antisolare, che in questo periodo si trova in mezzo alle corna del Toro. Siamo di fronte ad un cielo perfetto, tra i più bui sperimentati, ai livelli della Mongolia e con questi cieli tutto diventa possibile. Individuo facilmente ad occhio nudo alcune stelle australi come alfa e beta della Gru e proprio in questa costellazione decido di puntare qualche oggetto.
C’è per esempio un gruppetto di galassie nei pressi della stella theta, che mi attira e subito, senza fatica mi appaiono nello stesso campo dell’oculare da 40 mm 4 nubecole, ben risaltabili sul velluto nerissimo del cielo, per la precisione NGC 7552, 7582, 7590 e 7599, tutte attorno all’undicesima magnitudine. Un bel colpo! Perché allora non spostarsi nell’Orologio, anonima costellazione australe e pur se piccola e debole mi appare la galassia NGC 1512 di magnitudine 11,5. Poi è la volta della Fenice, con la IC 5325, molto difficile, ma comunque visibile e del Pesce Australe e qui individuo la NGC 7314, piccola e granulosa. Dopo aver condiviso con il resto del gruppo tali oggetti cavaocchi, concedo loro un po’ di soddisfazione con i più fulgidi tesori del cielo invernale, su tutti la Nebulosa di Orione, con ricami tenuissimi, quasi una foto, anche con lo strumento di Alberto.
Paolo intanto si dedica al monitoraggio delle Geminidi, che cominciano a solcare i cieli scuri algerini. Verso mezzanotte ci ritiriamo nelle tende e all’alba siamo tutti svegli, Vanna si lamenta per lo squarcio nella sua tenda e della cerniera che non si chiude, poi la nostra guida ci accompagna attraverso le enormi rocce dell’altopiano, alla ricerca di svariate pitture rupestri, risalenti al tempo in cui questo luogo era fertile e pieno di vita. La nostra curiosità è tutta rivolta al Dio Marziano di Jabbaren, che costituisce un’inquietante coppia con quello visto a Sefar nel 2007.
Il cammino è piuttosto tortuoso e ci porta a passare in stretti corridoi tra le rocce scolpite nel modo più bizzarro dalla furia del vento o sul ciglio di grandiosi canyon, che, ci dice la guida, confinano con la Libia. Poi, dopo l’ennesimo bue o scena di caccia, la guida ci accompagna in un anfratto, ci mostra la consunta pittura raffigurante la mitica regina di Atlantide Antinea e poco distante ecco il Marziano! Purtroppo il tempo, si parla di 10.000 anni fa, ha chiesto il suo tributo a lui più che ad altre pitture e oggi appare decisamente sbiadito, quasi difficile da staccare dalla parete curva della roccia, ma trovando il giusto angolo di illuminazione, il testone a forma di casco e l’unico occhio della gigantesca figura ( circa 4m di altezza) diventano veramente inquietanti.
Ritorniamo al campo per il pranzo e ci rilassiamo in attesa di un’altra serata osservativa. Questa volta prendo di mira lo Scultore e qui individuo prima la galassia a spirale NGC 134, molto luminosa magnitudine 7,1 ed NGC 7793, che definisco bellissima ed enorme, dalla forma circolare, con luminosità di 9,1. Ci dirigiamo poi nell’ammasso di galassie della Fornace, in cui riconosciamo decine di piccole nuvolette e con stupore, in Orione,la nebulosa oscura Testa di Cavallo, visibile abbastanza facilmente come un cuneo scuro su un fondo leggerissimamente più chiaro.
A quel punto ci concediamo un conteggio delle Geminidi, che sono decisamente aumentate come frequenza: dalle 23.00 alle 23.45 ne osserviamo più di 100. Tutto fa ben sperare per l’indomani, giorno previsto di massima attività dello sciame. Il giorno dopo, 13 Dicembre, scendiamo dal Tassili assieme ai docili asini e alle 16.00, riabbracciamo Giorgio al campo base. E’ un po’ contrariato: dopo la nostra separazione infatti, è rimasto fino alle 5 del pomeriggio alla base della montagna assieme alla guida prima che qualcuno potesse riaccompagnarlo in città, visto che i telefoni non prendevano la linea, ma tutto è bene quel che finisce bene.
Piantiamo le tende vicino alla zona più aperta, necessaria per una proficua osservazione delle Geminidi, ma si sta alzando il vento e l’operazione diventa piuttosto complessa. Dopo cena, raduno i compagni nell’ampio pianoro e ci stendiamo su alcune rocce che ci proteggono dal vento e che hanno un’inclinazione perfetta per osservare comodamente il comportamento delle Geminidi. Sono appena le 21.30 e le meteore non tardano a comparire, pur col radiante molto basso, ci sono diversi bolidi, anche di magnitudine -2, -3! Ce ne sono di lunghissime, di colore bianco, tutte dalla caratteristica forma a goccia, con sottilissima e quasi inesistente scia. Le Geminidi sono abbondanti e luminose anche quest’anno e verso le 23.00, ne contiamo 180 in un’ora, anche se il picco previsto è ancora lontano, addirittura alle 6 del mattino.
Stiamo ancora un po’, poi, per meglio ammirare il picco, decidiamo di concederci qualche ora di sonno e di alzarci alle 4.45. Ci ritiriamo nelle tende agitate dal vento e puntualmente la sveglia di Bruno ci ridesta da un sonno rapido e freddoloso. Il bolzanino esce prontamente all’aperto e da lui arrivano queste parole: “ Porca vacca! E’ tutto annuvolato!” Non ci posso credere, rinuncio a vestirmi e ad uscire ripiombando nel sonno. Il mattino dopo ricevo un messaggio da Ferruccio, che mi rivela che in base ai dati dell’IMO (International Meteor Organisation), il picco ha anticipato a prima della mezzanotte, per cui non ci siamo persi nulla. Moloud ci porta a fare il pieno a Djanet e poi cominciamo la prima tappa di avvicinamento al lontano cratere di Tin Bider o meglio Tid Bar.
Ad un’ora e mezza da Djanet, in direzione NW, penetriamo nell’Erg d’Admer e facciamo sosta per il pranzo presso alcune imponenti dune dalle forme sinuose, che si stagliano col loro colore giallo ocra in un cielo divenuto blu cobalto. Dalla sommità di una duna notiamo però verso sud un polverone che riduce la visibilità. Moloud si allarma, è in arrivo una tempesta di sabbia: tutto ora diventa più difficile. Ci chiudiamo nelle jeep, il nostro percorso ci porta purtroppo verso la tempesta. Dopo un’ora ci siamo dentro e la visibilità si riduce notevolmente.
La tempesta non è paragonabile per intensità con quella sperimentata in Tunisia nel 2002, anche se comunque il vento è teso e forte al livello del terreno e ci soffia addosso la polvere dell’arido reg. Alle 16 stiamo arrancando e Moloud decide di fermarsi, non è il caso di procedere in queste condizioni senza la luce del sole. Ci troviamo nella regione di Serouenout, sotto un cono vulcanico simile a quello di “Incontri ravvicinati”e procediamo nel laborioso e precario montaggio delle tende. Il vento furioso rende l’operazione estremamente difficile ed è necessario montare ogni tenda con l’aiuto di almeno altre due persone. Bruno si rivela fondamentale, avendo portato con sé diversi metri di corda da scalata e con essa fissa i montanti delle tende a grossi macigni usati come zavorre. Un sole malato lancia gli ultimi lividi bagliori dietro la sagoma nera della nostra montagna. Tutto attorno, il nulla.
Fortunatamente nel corso della cena la tempesta si placa e osserviamo un po’ di Geminidi in un cielo sempre superlativo, soprattutto verso lo zenit, dove è presente meno polvere in sospensione. Il tasso è calato notevolmente anche se di tanto in tanto compare qualche bolide, come uno lunghissimo e luminoso sopra Sirio. La notte è piuttosto agitata, con turbini di vento che sollevano letteralmente la tenda nonostante il nostro peso e quello dei bagagli. Anche Maurilio, che dorme in jeep dopo essersi buscato un potente raffreddore, sente il mezzo ondeggiare paurosamente sotto i colpi del vento.
Il mattino dopo, la situazione è tranquilla e puntiamo decisi verso la zona di Tid Bar e del fantomatico cratere, ci aspettano 300 Km di pista. I paesaggi più vari ci sfilano di fianco, piramidi o coni di roccia, solitari o raggruppati, sentieri scoscesi che scendono o si inerpicano. Verso le 10 passiamo accanto ad un mulino a vento con una vasca d’acqua, un segno di civiltà, ma è abbandonato, non c’è traccia di esseri umani. Solo qualche dromedario e in lontananza qualche gazzella zompettante, attirati dall’acqua, l’elemento più prezioso nel deserto. Il cielo è tornato del suo colore blu abituale e solo all’orizzonte è rimasta qualche bruma. Proprio dalle brume, verso ovest ci appaiono come fantasmi dune bianchissime con tenui sfumature rosa, è lì che faremo la sosta per il pranzo.
Giorgio e Paolo si stendono sulla sabbia in completo relax, io e Maurilio discutiamo sulle carte la nostra rotta e quanto c’è di probabile nelle parole di Moloud. Maurilio possiede un GPS e ha costantemente tenuto sotto controllo il nostro percorso. Le coordinate del cratere non coincidono assolutamente con la zona in cui ci sta portando la nostra guida, anzi distano da lì altri 200 km. Mah! Nel pomeriggio passiamo accanto ad un vecchio fortino della legione straniera, poi accanto ad una splendida “mesa” e infine raggiungiamo una catena di dune questa volta di colore giallo carico. E’ Tid Bar, lì faremo il campo, ma naturalmente non c’è traccia di cratere. Spieghiamo a Moloud che a questo punto è impossibile raggiungere il vero cratere, è troppo lontano e domani saremo obbligati a piegare verso sud in direzione di Tamanrasset, c’è il rischio di non arrivare in tempo per prendere l’aereo per il ritorno.
Tid Bar è comunque una zona incantevole, forse la più bella di quelle viste quest’anno in Algeria. Siamo circondati da dune dalle geometrie così delicate da sembrare finte ed alcune di loro alla luce del tramonto si colorano di tutte le varietà del rosso e del giallo. Scendo dalla duna dopo aver ammirato il green flash, fotografato da Paolo e osservo i miei compagni rimasti là in cima e le loro sagome nere, che appaiono in controluce come il logo del “2009 Anno Internazionale dell’Astronomia”, stagliandosi sull’azzurro metallico del tramonto avanzato, che sfuma nel nero del cielo stellato.
Questa è un’altra immagine che rimarrà per sempre impressa nella mia memoria. Prima di dormire guardiamo qualcosa con lo strumento di Alberto, poi ci ritiriamo infreddoliti nelle tende. Al mattino siamo ibernati e ci vuole un buon caffè di Moloud per scaldarci un po’. Abbandoniamo Tid Bar, ma la velocità media è piuttosto bassa, 40 km/h e quando ci fermiamo per il pranzo in un boschetto di acacie, siamo ancora molto indietro rispetto al nostro obiettivo, le “montagne del diavolo”!
Nel pomeriggio la strada migliora e attraversiamo il più velocemente possibile la pericolosa regione di Amguid e mentre il sole si avvia al tramonto avvistiamo all’orizzonte le montagne del diavolo, colorate di rosa e azzurrino, magnifiche! Sembrano le dolomiti! Bruno è entusiasta. Ma il sole sta rapidamente calando e dobbiamo accamparci in fretta accanto ad alcune basse dune cespugliose, proprio in tempo per ammirare un fantasmagorico blue flash.
L’ultima notte nel deserto trascorre tra racconti e barzellette attorno al fuoco e sguardi ormai nostalgici a quel magnifico cielo che chissà quando rivedremo ed il mattino dopo, il più freddo di tutto il tour, si sfiorano gli 0°, riceviamo la visita di alcuni bambini di un villaggio vicino, incuriositi della nostra presenza.
Verso le 15 siamo a Tamanrasset, la cittadina ai piedi dell’Hoggar, un’imponente catena di monti visitata nello scorso tour del 2007 , e ci facciamo una doverosa doccia all’hotel Bois Petrifiè, in cui rivediamo il responsabile dell’agenzia di Moloud, Moussa Boutegui. Con lui parliamo delle incomprensioni e difficoltà fra il tour proposto dal Tucano e i dubbi sollevati dalla loro agenzia, per quanto concerne i due crateri meteorici. Ci spiega che l’unico modo per arrivare al cratere di Amguid , è quello di ottenere un permesso speciale dal direttore del Parco Nazionale dell’Hoggar, da esibire ad eventuali controlli dei militari, mentre Tin Bider, non è mai stato raggiunto dai loro tour, essendo una zona assolutamente remota, sconosciuta anche a Moloud.
Ma si può fare, se un giorno vorremo tornare nel loro magnifico paese, anche Moloud lo spera mentre ci saluta calorosamente all’aeroporto. Chi lo sa, non c’è due senza tre e già nel lungo volo notturno che ci riporta ad Algeri e poi a Milano, con Maurilio ed Alberto si parla già della prossima spedizione in Algeria. Non c’è dubbio, questo luogo ci ha veramente stregati!
Le foto di ambiente sono di MASSIMILIANO DI GIUSEPPE e ALBERTO PALAZZI
Le foto astronomiche sono di BRUNO GIACOMOZZI