UTAH 2023: The Ring of Fire!!
di Massimiliano Di Giuseppe
Dopo l’ultima eclisse anulare negli Emirati Arabi del Dicembre 2019 e dopo la parentesi pandemica, Esploriamo l’Universo è di nuovo a caccia di eclissi, con l’anulare americana del 14 Ottobre 2023.
L’eclisse inizierà all’alba nel nord-ovest degli Stati Uniti, dallo stato dell’Oregon, per poi passare in diagonale sul territorio statunitense attraverso Arizona, Utah, Colorado, New Mexico, e Texas, per poi spingersi sul mare nel Golfo del Messico. Proseguirà poi nella penisola dello Yucatan in Messico, in Belize, Honduras, Nicaragua e Costa Rica. Si spingerà infine in Sud America, dove attraverserà la Colombia e il Brasile, in particolare gli stati del bacino del Rio delle Amazzoni e quelli federali del Nordeste, dove si perderà nell’Oceano Atlantico al tramonto.
La nostra scelta per l’osservazione del fenomeno celeste ricade sullo stato dello Utah, in particolare il parco Goosenecks che dovrebbe offrire ottime previsioni meteo, lunga durata dell’anularità ( più di 4 minuti) ed un paesaggio estremamente suggestivo. E’ così che l’8 di Ottobre quando è l’1 di notte mi incontro con la prima partecipante al viaggio, Sara Mesini, con noi in Finlandia nel 2022 che carico in auto a Ferrara. Raccolgo poi a Osteria Nuova di Sala Bolognese (BO), Giulia Baroni, compagna di viaggio quest’anno in Norvegia. Arrivati a Malpensa dopo un comodo viaggio ci incontriamo con gli altri del gruppo, i veterani Elisabetta Stepanoff ( vista l’ultima volta nel 2018 a Milano alla mostra NASA a Human Adventure ), Rosanna Montecchi e Liana Minelli ( con noi in Finlandia lo scorso anno ) a cui si aggiunge il giovane Matias Ricardi, poi le sorelle Maria Teresa e Isabella Calestani più Lia Pallone, sempre del gruppo finlandese e la nuova recluta Maria Civetta.
Il volo per New York con la Delta Airlines è lungo 10 ore nelle quali congeliamo sotto un’aria condizionata micidiale, poi una volta atterrati attendiamo il volo successivo per Las Vegas in Nevada ammirando dai finestroni del gate il lontano skyline di Manhattan e il ponte di Brooklyn. Dopo ulteriori 4 ore di volo e con un fuso orario di ben 9 in meno rispetto all’Italia, siamo finalmente a Las Vegas. Un po’ stralunati, incontriamo al recupero bagagli la nostra guida Stefano Raspi che sarà con noi per tutto il tour e poco dopo salutiamo l’ultimo partecipante al viaggio, lo storico Roberto Iorio, visto l’ultima volta negli Emirati per la scorsa eclisse anulare e appena arrivato con un volo da Roma.
9 Ottobre, scendo nella gigantesca hall del Luxor per la colazione ammirando la cura con cui hanno cercato di farla somigliare a un tempio egizio, con tanto di geroglifici, palme e sfingi, ma pure le proporzioni di questo hotel sono faraoniche ( più di 4000 camere! ), tra l’altro è l’unico hotel al mondo ad essere dotato di ascensori che salgono in obliquo, chiamati inclinators…Attraversata un’altra enorme sala con centinaia di slot-machine che funzionano ininterrottamente, mi accomodo con Lia e Sara, quest’ultima in videochiamata col fidanzato Mattia che quest’anno non ha potuto seguirla in viaggio, per una colazione a base di pancake.
Lia mi rivela che oggi preferisce fare un giro in città, così come la famiglia Montecchi, ci incontreremo con loro stasera a cena. Nel frattempo il resto del gruppo sale sul pullman dove Stefano è alle prese col suo sofisticato sistema audio dotato di computer e cavi vari con cui si collegherà alle casse del pullman per trasmettere le canzoni che faranno da colonna sonora al nostro tour. Si parte! Passiamo di fianco alla Sfinge e alle palme del Luxor e al dirimpettaio Excalibur con tanto di castello delle fiabe, mentre Stefano inizia a raccontarci qualcosa su Las Vegas e i suoi incredibili alberghi, che vedremo cmq meglio stasera, quando a suo dire renderanno molto di più, offrendoci ognuno un’illusione diversa.
Il nome Las Vegas, ci spiega, deriva da un termine spagnolo che significa “i prati”, qui esistevano infatti sorgenti d’acqua che tenevano in vita alcune aree verdi in una zona per lo più desertica, il deserto di Mojave. Ma la vera espansione di Las Vegas si deve alla legalizzazione del gioco d’azzardo nel 1931, quando si iniziarono a costruire grandi hotel con casino. Oggi questi immensi alberghi sono diventati il polo d’attrazione per milioni di turisti ogni anno. Uscendo dalla periferia della città entriamo subito nel deserto, che vediamo costellato di pannelli solari e miniere per l’estrazione di calcio e borace. Ricordo a quel punto ai partecipanti che non siamo molto distanti dalla misteriosa Area 51, base militare segreta dove la leggenda vuole sia conservato un velivolo alieno e nelle cui vicinanze arrivai nel corso del viaggio del 2002. A queste parole Stefano si mostra estremamente meravigliato: “ Vi è andata bene”, dice voltandosi verso di me “lì i militari sparano a vista…”.
Dopo aver percorso circa 90 km, entriamo nel parco della “Valley of fire”, la valle del fuoco, nome dovuto al colore rosso infuocato delle sue rocce di arenaria, formatesi 150 milioni di anni fa dopo il ritiro delle acque di un antico mare interno. Aaron parcheggia accanto al Visitor Center e facciamo 2 passi tra queste suggestive rocce in cui spiccano tonalità rosse, rosa, ruggine, arancioni, beige e marrone chiaro, per arrivare sotto una di queste in equilibrio precario sulla vallata, una “Balanced rock”, un piccolo assaggio di quello che ci aspetterà visitando parchi più blasonati durante il nostro tour. Stefano ci mostra lungo il sentiero alcune piante di fagioli selvatici e le pericolose jumping cholla, ricche di aculei a cui è meglio non avvicinarsi troppo, poiché si possono staccare e conficcare addosso, in lontananza fa capolino anche qualche chipmunk, piccoli roditori che scappano velocemente nelle loro tane.
Dopo qualche foto di gruppo, riprendiamo la marcia in pullman per sostare al Rainbow Vista, un punto panoramico con parcheggio che offre la possibilità di vedere tutto intorno una tavolozza di colori davvero eccezionale, oltre al rossiccio dovuto agli ossidi di ferro ci sono questa volta anche tonalità verdi e più chiare di Manganese e Silicio.
Sara decide di arrampicarsi su una montagnola che costeggia la strada da cui si gode una prospettiva a 360° e si presta per alcune foto degne della copertina di importanti riviste di moda. Seguiamo poi Stefano scarpinando lungo un sentierino sotto un sole cocente ( ci sono più di 30°) verso l’interno, per osservare alcune incisioni rupestri risalenti a 2500 anni fa, raffiguranti animali e figure umane su cui si aggrappano alcuni strani rettili, i Mostri di Gila, grandi lucertoloni che ci guardano incuriositi. Poi in un piccolo canyon adiacente notiamo diverse rocce bucherellate dovute all’erosione dal vento e dell’acqua che hanno modellato il panorama creando forme particolarmente scenografiche, non da meno il piccolo arco di roccia sulla strada del ritorno.
Tornati sul pullman Stefano fa partire la sigla di Star Trek, è proprio qui infatti, ci dice indicandoci il panorama piuttosto alieno, che è stato girato il film in cui muore il Capitano Kirk “Star Trek Generations” e non posso fare a meno di andare coi ricordi all’incontro avvenuto con William Shatner, alias Capitano Kirk nel 2016 a Bellaria nell’ambito dell’annuale raduno dei fan di Star Trek, “Starcon”. Ma l’impressionante scenografia naturale di questo luogo ha reso la Valley of fire il set cinematografico ideale di altri film di fantascienza come Transformers e Atto di Forza con Schwarzenegger.
Un pranzo veloce a base di sandwich nella periferia di Las Vegas e riposiamo un po’ in albergo prima di darci di nuovo appuntamento con la nostra guida per riprendere il tour nel tardo pomeriggio, questa volta entreremo negli hotel più famosi!
Prima però un salto al Las Vegas Boulevard in cui ci fotografiamo sotto la famosa insegna “ Welcome to Fabulous Las Vegas”, situata all’ingresso sud della città, senza dubbio uno dei luoghi più fotografati. Con un abile stratagemma di Stefano riusciamo a evitare la lunga coda di turisti in attesa per il selfie. Riprendiamo quindi il pullman per proseguire la marcia tra gli sfavillanti edifici che si accendono all’imbrunire: ecco Il New York New York con tanto di fedele riproduzione della Statua della Libertà e le sue famose Montagne Russe che attraversano la Grande Mela, poi l’Hard Rock Cafè, con una gigantesca chitarra elettrica ed il Caesar Palace in cui entreremo.
Si tratta di uno dei più famosi della città, con la sua atmosfera che ricorda l’apice dello splendore dell’Impero Romano in un tripudio di statue, fontane, saloni enormi con le onnipresenti slot machine, colonne, marmi e addirittura un cielo artificiale con i colori del tramonto. C’è pure un teatro, il Colosseum, in cui si sono esibiti Celine Dion, Elton John, Adele e altri celebri artisti, ci racconta Stefano mentre scendiamo un’incredibile scala mobile curva. Torniamo sul pullman passando di fianco all’Hell’s Kitchen, la terribile cucina in cui lo chef stellato Gordon Ramsey mette alla prova i concorrenti che partecipano alla sfida.
A proposito, ci attende ora proprio la cena, precisamente al Senor Frogs’s all’hotel Tresure Island, una Mexican Fiesta in cui è a nostra disposizione un self service con porzioni di quesadillas, patate, vassoi misti di Tacos, riso e fagioli e poi alette di pollo, assaggio di churro e dolci. Ci raggiungono a quel punto anche gli altri che ormai avevamo dato per persi, Rosanna, Lia, Matias e Liana che si accomodano assieme a noi e ci raccontano le meraviglie delle montagne russe al New York, della monorotaia, ma soprattutto della Sphere, l’edificio sferico più grande al mondo (110 m e che può ospitare 18000 persone) al cui interno hanno assistito ad un documentario di fantascienza con spettacolare effetto full-dome in 16K! “C’era però tanta aria condizionata!”, dice Lia con qualche colpo di tosse…
Tutti assieme visitiamo l’Hotel Venetian, che come suggerisce il nome, ricrea la romantica città di Venezia, con i suoi canali i ponticelli e le gondole. Nella zona antistante l’ingresso sono riprodotti fedelmente in scala 1:2 il campanile di San Marco e il ponte di Rialto. Proprio su questo ponte ammiriamo in lontananza la Sphere su cui campeggia il logo degli U2, il celebre gruppo irlandese che ha in programma proprio lì una serie di concerti fino a Febbraio del prossimo anno. Il costo dei biglietti è però proibitivo…Ricordo ancora l’ultimo concerto di questo gruppo visto a Roma nel 2017.
Scendiamo quindi al Bellagio, al cui interno è allestito il fantastico “The magic of fall”, un fiabesco orto botanico dai colori autunnali con tanto di funghi giganti, folletti e altre creature del bosco. Seguiamo Stefano all’esterno in cui sta per iniziare lo spettacolo delle fontane danzanti a tempo di musica con “All night Long” di Lionel Richie in sottofondo. Ammiriamo gli spruzzi spettacolari e illuminati da luci colorate che si alzano proprio di fianco all’Hotel Paris con la sua Tour Eiffel di 165 m ( la metà dell’originale ) e l’Arco di Trionfo.
E’ il momento di tornare al Luxor e Stefano chiama un taxi dalla hall del Bellagio in cui ci sono altre fontane, ma questa volta di cioccolata, che entusiasmano Maria.
10 Ottobre
Dopo la consueta colazione carichiamo le valigie sul pullman, prendiamo qualche bottiglietta d’acqua e diamo il “good morning” a Stefano ed Aaron, che sono pronti a portarci alle prossime mete del nostro tour: lo Zion National Park e il Bryce Canyon. E’ arrivato il momento di salutare Las Vegas e i suoi mirabolanti alberghi. Ma lungo il viale principale un’ultima sorpresa di questa città, Stefano ci mostra davanti al pullman un’auto senza conducente a guida autonoma telecomandata a distanza, è la prima volta che la vedo e devo dire che fa un certo effetto…
Percorriamo nuovamente il deserto di Mojave in cui notiamo alcuni bassi e curiosi alberi Joshua Tree, della famiglia della yucca, le cui foglie vengono utilizzate dai nativi per fare cesti. Dopo un pranzo veloce presso un’area commerciale in cui compriamo anche alcune magliette che cambiano colore alla luce del sole, entriamo nello Utah e nello Zion National Park, un parco montano che vedo per la prima volta. Facciamo una sosta fotografica sul lato della strada che sale zigzagando una profonda gola scavata dal fiume Virgin. E’ un canyon ampio e scenografico con dirupi vertiginosi e montagne rossicce che toccano i 2600 m e che incombono verticali attorno a noi. Si vede anche un grande arco scolpito in una parete rocciosa in lontananza.
Betta chiede qualcosa sulla storia geologica dello Zion, io e Stefano ci alterniamo al microfono spiegando che tutto iniziò 260 milioni di anni fa nei bassi fondali costieri di un grande oceano tropicale del Permiano, cicli successivi di sollevamento tettonico portarono poi all’innalzamento del fondale che andò a formare 65 milioni di anni fa l’altopiano del Colorado, che si frammentò a sua volta nei gradini di una enorme scalinata la cosiddetta “Grand Staircase”.
Lo Zion Canyon è una profonda incisione nell’altopiano di Markagunt che si trova in posizione intermedia tra il Grand Canyon e il Bryce Canyon creata dall’erosione del Virgin River.
Saliamo di quota e una volta sull’altopiano Stefano fa partire un sottofondo di musica classica mentre siamo circondati da rocce di arenaria scolpite dal vento e dall’acqua che brillano di rosso e di bianco, completano il quadretto gli alberi del bosco con i colori autunnali delle loro foglie gialle e rosse e un cielo blu limpidissimo.
Dai finestrini del pullman notiamo improvvisamente sulla destra un allevamento di Bisonti, è d’obbligo una fermata. Questi grossi bovini pascolano placidi dietro una staccionata, situazione ben diversa da quando nel 2017 li vedemmo liberi al Parco di Yellowstone e la guida ci disse di non avvicinarsi perché avevano i piccoli e potevano essere pericolosi. Dopo le foto di rito riprendiamo la marcia sull’altopiano tra alberi di mele e pere e i primi pinnacoli del Bryce Canyon, i famosi “hoodoos” molto simili ai “camini delle fate” della Cappadocia o se vogliamo ai castelli di sabbia. I panorami sono spettacolari e l’atmosfera è rilassata, Rosanna e Maria cantano in pullman “Marina”e “ Guantanamera”, sulle note della chitarra in sottofondo mentre attraversiamo il Red Canyon, con i suoi ossidi di ferro vividi e accesi dal sole che si avvia al tramonto ed entriamo poco dopo nel Bryce Canyon National Park.
Così chiamato, ci dice Stefano, in onore del mormone Ebenezer Bryce, che con altri suoi confratelli si insediò qui alla fine dell’800. I Mormoni, seguaci del “Libro di Mormon” continua Stefano, sono una lobby molto potente negli USA, che ha visto diversi loro esponenti entrare nei servizi segreti americani grazie alla loro affidabilità e al rispetto delle regole. Nonostante il nome, il Bryce non è un vero e proprio canyon quanto piuttosto una serie di anfiteatri a forma di ferro di cavallo, Aaron ci conduce al Sunset point, dove abbiamo la prima vista panoramica sugli hoodoos, proprio al tramonto del sole. Queste rocce sedimentarie prodotte dell’erosione dell’acqua, vento e ghiaccio ci appaiono di una tonalità rosata, una serie di guglie che emergono da una vasta foresta di abeti che si estende tutto attorno. Anche questo parco lo vedo per la prima volta e già ad una prima occhiata mi colpisce molto per la sua grandiosità e unicità.
Posiamo le valigie al Best Western Plus Ruby’s Inn, trascinandole su per la scala in legno che porta alle camere e faticando un bel po’, siamo infatti a 2500m e la quota si sente, ma anche il fresco, una decina di gradi, un bello sbalzo dai 30 di Las Vegas! Una vivida e azzurrina ombra della Terra ( l’ombra del nostro pianeta sulla sua atmosfera) si fa strada dall’orizzonte est, il cielo continua a mantenersi estremamente limpido, l’ideale se stasera volessimo tentare qualche osservazione astronomica. Le camere, tutte in fila su di una pensilina sono belle, spaziose e calde, un po’ in stile western. Il tempo di cambiarci con abiti più pesanti e ci ritroviamo tutti quanti per la cena all’Ebenezer’s, un ristorante dall’altro lato della strada dotato di un grande salone pieno di tavoli e di un palco in cui si esibirà un gruppo di musica country il “Cowboy Entertainment”. Un vivido tramonto giallo contrasta col blu scuro della notte che sta avanzando.
I camerieri, allegri e cordiali ci fanno accomodare ai tavoli servendoci ottime bistecche e salmone alla brace, c’è veramente tanta gente, si accende un mega schermo sul palco che illumina le bandiere americane e le foto d’epoca alle pareti , sta per iniziare lo spettacolo country di Tim Leech & Amber, preceduto da un filmato introduttivo con scene della vita dei cowboy in cui si vede anche un bel cielo stellato ripreso all’Arches Park che vedremo tra qualche giorno. Il gruppo si esibisce cantando un repertorio dei più famosi brani country tra cui Take me home, country roads di John Denver, con tanto di violino elettrico e chitarra con slide. Soddisfatti, verifichiamo la disponibilità di Aaron per portarci col pullman in un luogo buio ad osservare un po’ di stelle visto che dall’albergo purtroppo non è possibile, ci sono troppe luci. Aaron annuisce, la cosa si può fare e torniamo al Sunset Point. Appena scesi dal pullman e una volta abituati al buio, lo spettacolo è mozzafiato, il cielo è gremito di stelle e una bella Via Lattea attraversa il Cigno e Cassiopea allo zenit.
Raduno il gruppo e inizio a mostrare col laser verde le costellazioni autunnali, anche se a dire il vero se ne vedono ancora molte estive, il Triangolo estivo appunto, con Vega, Deneb e Altair, il Delfino, sono ancora alti sull’orizzonte e Sagittario e Scorpione non sono del tutto tramontati. Ci spostiamo in un angolo più aperto per vedere anche il Grande Carro e la stella Polare e a quel punto mi accorgo di altre persone nel buio, altri Stargazers con macchine fotografiche al seguito, che abbiamo sicuramente disturbato e che ora si allontanano per cercare angoli più quieti.
Stefano è incuriosito da questa serata astronomica e pure Aaron che si fa tradurre da alcuni del gruppo le mie spiegazioni. Rimaniamo quasi due ore tra domande sull’origine dell’universo e l’esistenza di alieni ed Ufo, poi alcuni cominciano a sentire il freddo, la temperatura si è abbassata ulteriormente, meglio tornare sui nostri passi, per il momento può bastare, la prossima volta utilizzerò il telescopio, il fedele Tansutzu, che anche stavolta ho portato per l’eclisse.
11 Ottobre
La mattina mi sveglio presto, verso le 6, mi affaccio dalla finestra appannata e fuori nella luce metallica che precede l’alba, verso est noto una bellissima congiunzione celeste tra una sottile falce di Luna calante e una brillante Venere. Mi metto un maglione ed esco sul porticato in legno, fa un bel freddo, saremo sottozero! Fotografo la congiunzione e mi ritrovo con gli altri più tardi per la colazione in un edificio lì vicino, una sorta di bar/ristorante affollato di gente. Stefano ha pianificato la giornata, ci accompagnerà in pullman ad un altro punto panoramico del Bryce e ci lascerà poi liberi per una passeggiata.
Scendiamo quindi al Lower inspiration point uno dei punti in cui il Bryce da veramente il meglio di sé. Il paesaggio è incantevole, nel grande anfiteatro che si apre sotto di noi spuntano centinaia di pinnacoli arancioni, labirinti di gole e guglie scolpite nella roccia. Il nostro gruppo giustamente si sofferma per fotografare questa bellezza della natura e Stefano ci precede, “devo trovare la tana di un Opossum…”, ci dice misterioso scomparendo all’orizzonte. Noi continuiamo a passeggiare sul ciglio del burrone ammirando geometrie degli “hoodoos” sempre diverse e alberi scheletrici che spuntano dal terreno chiaro.
In questo caso la spiegazione geologica dell’ incredibile formazione rocciosa risale agli eventi che hanno interessato quella che un tempo era una pianura alluvionale, attraversata da fiumi e laghi. Fango e sabbia si accumularono in questo ambiente per divenire le arenarie e i fanghi induriti che furono poi erosi dagli agenti atmosferici. Data l’altitudine, nei mesi più freddi l’acqua che filtra nelle rocce congela, esercitando una forte pressione che rompe la roccia. In più anche il vento e le piogge contribuiscono all’erosione. Una foto e una chiacchiera tira l’altra fatto sta che perdiamo di vista una parte del gruppo e fatichiamo a trovare il luogo dell’appuntamento con Stefano che ci raggiunge solo dopo una mezzoretta al pullman. “ Ho trovato l’Opossum!” Ci dice con uno sguardo sornione e da sotto la giacca tira fuori un pupazzo che sulle prime pensavamo vero….che burlone!
Ci spiega dove raggiungere gli altri al Queen’s garden trail, un sentiero che scende giù nel canyon. Sara e Maria mi accompagnano nella veloce discesa ( abbiamo una mezz’ora prima di ripartire) ed il paesaggio mi ricorda il Tassili algerino con le suoi incredibili formazioni rocciose.
Molto scenografico anche un albero con foglie giallo oro che contrasta incredibilmente con l’arancione delle rocce ed il blu del cielo, siamo fortunatissimi col meteo, speriamo si mantenga così!
Riprendiamo la marcia in pullman facendo una rapida sosta al Red Canyon, un altro parco attraversato anche all’andata in cui spuntano vicino ad una reception deserta due pinnacoli rocciosi. Siamo diretti al Glen Canyon e Stefano prende le prenotazioni di quanti vorranno nel tardo pomeriggio effettuare un volo su un piccolo aereo da turismo sopra il Lake Powell. “Sarà una cosa spettacolare!” promette. Quasi tutti decidono di partecipare. Prima però ci fermiamo a pranzo in un paesino caratteristico presso una locanda che serve sandwich gustosi e torte. Poco lontano, nella piazza, campeggia un bel cartello “Star Party”, una serata osservativa con telescopio prevista per stasera , gli astrofili locali si stanno dando da fare in questi giorni!
Entriamo in Arizona ed il Lake Powell compare in lontananza, si tratta di un bacino artificiale venutosi a creare dopo la costruzione della diga del Glen Canyon, eretta fra il 1956 e il 1966, a cui si deve anche la fondazione della vicina cittadina di Page. Il lago inondò una zona sacra agli indiani Navaho creando diverse controversie, ci racconta Stefano. Ci affacciamo all’enorme e vertiginosa diga, che avevo visto velocemente anche nel 2002 e anche qui fuori dalla reception notiamo una locandina del Ring of fire, l’eclisse anulare che ci sarà fra 2 giorni, proprio accanto ad una roccia con piccole impronte di dinosauri, un Dilophosauro di circa 170 milioni di anni fa. Ma è il momento di prendere l’aereo per il sorvolo a bassa quota del Lake Powell. Aaron ci fa scendere in un piccolo aeroporto vicino a Page dove ci attendono due velivoli ad elica, io Lia, Roberto, Giulia, Maria e le sorelle Calestani abbiamo quello con la sigla 785W, gli altri salgono sull’aereo accanto. Il pilota ci apre il portello e ci fa accomodare sui piccoli sedili ed indossare le cuffie e le cinture, impresa non semplice.
Siamo un po’ preoccupati a dire il vero per il forte vento e in generale volare con questi piccoli velivoli mette sempre un po’ di apprensione. L’aereo infatti durante il decollo viene spinto decisamente in diagonale, ma il pilota non pare preoccuparsi più di tanto, sembrerebbe normale amministrazione…Due o tre vuoti d’aria e il volo si assesta, possiamo finalmente goderci l’azzurrissimo Lake Powell che serpeggia sotto di noi. Passiamo anche sopra all’Horseshoe Band, ammirando il Colorado che modella il profilo delle sponde con una curva a forma di ferro di cavallo. Altri vuoti d’aria e sbandamenti, Lia tossisce sovrastando il frastuono del motore, ma l’aereo continua imperterrito il suo itinerario seguendo le scogliere ripide e frastagliate che ci rivelano strati orizzontali di calcari e arenaria di colore rossiccio con una parte più bianca sotto.
Il sole si specchia nel fiume creando bellissimi riflessi immortalati dalle foto e riprese video, questo giro si sta rivelando magnifico. Roberto tuttavia protesta, dal suo lato si vede poco o nulla, solo quando l’aereo fa dietrofront riuscirà a godersi lo spettacolo. Atterrati sani e salvi dopo una mezz’ora ci ritroviamo anche col resto del gruppo che riporta commenti entusiastici. Risaliamo infine sul pullman fino a Page e al nostro hotel, il Courtyard di Marriott Page al Lake Powell. Il tempo di riposarci un po’ e ci ritroviamo al ristorante per la cena, a base di mezzo pollo arrosto alle erbe servito con patate e verdure, seguito dal dessert.
12 Ottobre,
Il mattino, dopo un’abbondante colazione, partiamo per una delle visite più attese di tutto il tour, l’Antelope Canyon, uno dei più fotografati dell’Arizona! Consiste, ci racconta Stefano durante l’avvicinamento di due formazioni separate, l’Antelope Canyon superiore (Upper Antelope Canyon) lungo duecentosettanta metri, più agevole e facile da visitare e l’Antelope Canyon inferiore (Lower Antelope Canyon) lungo oltre quattrocento metri e più impegnativo, che è quello che visiteremo.
Entrambi i tratti di canyon si trovano in territorio Navaho e sono visitabili solo con l’assistenza delle guide locali, una delle quali ci aspetta infatti alla reception dove ci fanno lasciare borse, zaini o altro che possa creare impedimenti durante il percorso. Questa stretta fenditura può tra l’altro essere soggetta a inondazioni improvvise (flash flood) dovute a violente piogge, anche molto distanti dal sito, è quindi opportuno farsi accompagnare da esperti. Ci incamminiamo lungo un paesaggio desertico fino a una scalinata di ferro che scende nel buio del canyon, all’interno entra un numero limitato di visitatori giornalieri e di conseguenza la visita va prenotata anche diversi mesi prima. Il nostro turno delle 11.30 è in un orario perfetto, le condizioni di luce sono proprio quelle migliori.
Dal fondo del canyon guardiamo verso l’alto e capiamo immediatamente di trovarci all’interno di una meraviglia della natura, qui lo scorrere dell’acqua nei milioni di anni, combinato con l’azione del vento ha creato una vera e propria opera d’arte. Le alte pareti di arenaria sono levigate in onde e spirali che passo dopo passo cominciano ad assumere tutte le gradazioni del rosso, del giallo, grigio perfino dell’azzurrino per contrasto tra il colore delle rocce e la luce che filtra dall’alto, veramente super! Le foto dei libri o dei siti internet, già spettacolari, non rendono assolutamente la bellezza del luogo, siamo tutti a bocca aperta e ogni tanto la guida Navaho e Stefano ci richiamano all’ordine, è bene non rimanere indietro. Altra cosa importante, fare attenzione ad eventuali scorpioni o serpenti a sonagli che qui trovano rifugio…
“Rosanna, Liana, Matias, ci siete?” Stefano verifica la compattezza del gruppo mentre ci da qualche altra spiegazione: Il nome del canyon si deve alla presenza in zona di molte antilocapre ( una sorta di gazzella) della varietà pronghorn. Questa fenditura però era già conosciuta dagli antichi Navajo per i quali era un luogo spirituale. Essi, infatti, ritenevano che entrare qui fosse una vera e propria esperienza religiosa che richiedeva una giusta preparazione di spirito..Inoltre la parola navajo per chiamare il canyon è traducibile all’incirca come “il luogo dove l’acqua scorre tra le rocce”, speriamo non succeda durante la nostra visita!
Stefano prosegue: “E’ anche chiamato slot-canyon, ovvero un canyon dove si riescono a toccare entrambe le pareti con le braccia”, ma spesso Il passaggio si stringe ancora di più e ad un certo punto dobbiamo letteralmente strisciare tra le pareti di arenaria per arrivare ad altri slarghi in cui le forme e i colori i cambiano di nuovo e diventano inevitabili altre foto di gruppo. Ora l’arancione e il viola sono più brillanti e le forme intagliate dal vento e dall’acqua assumono profili di animali “Ecco un’aquila!” ci avvisa la guida voltandosi indietro. Il giovane Navaho si presta poi gentilmente ad aiutare il gruppo per fotografare al meglio queste meraviglie, il segreto infatti sta nella giusta impostazione del cellulare o della fotocamera e nel dare un colpo di flash per mantenere anche in foto i colori vividi delle rocce. Alla fine siamo molto soddisfatti, per tutti la visita dell’Antelope è stata una prima volta, finora la cosa più bella di questo tour americano.
Pranziamo con qualche hot dog su precisa richiesta di Roberto, poi Stefano ci propone una visita non prevista da programma all’Horseshoe bend, il canyon a forma di ferro di cavallo visto nel volo di ieri, che si trova poco fuori Page.
Parcheggiato il pullman, percorriamo un breve tratto a piedi lungo un facile sentiero e dopo una ventina di minuti appare sotto di noi l’Horseshoe Bend, un’ansa del fiume Colorado particolarmente profonda, 300m circa, in cui il fiume si è scavato nei millenni un meandro che assomiglia proprio ad un ferro di cavallo. Dal ciglio del burrone lo spettacolo è stupendo: si è a picco sul Colorado, che scorre placidamente più in basso, di un bel colore verde che fa da contrasto con le rocce rossastre. Non mancano naturalmente anche qui foto e selfie , che ci scattiamo a vicenda in particolare con Liana, Matias e Betta. Dobbiamo fare attenzione però al forte vento che in questa zona soffia impetuoso e rischia di portare via cappelli e foulard.
Arriviamo quindi a Kayenta al nostro Kayenta Monument Valley Inn, in cui rimarremo anche le 2 sere successive, una sorta di residence con casette al piano terra e concludiamo la bella giornata con una cena a base di costolette di pollo con salsa BBQ, patate fritte e verdure nell’attiguo ristorante pieno di addobbi a tema Halloween, con zucche, scheletri e ragnatele. Oltre Lia anche Rosanna ha una discreta tosse…speriamo bene…
13 Ottobre
Alle 6.30 è ancora buio, l’alba sta tingendo di rosso l’orizzonte est dove una sottilissima falcetta di Luna emerge dalle basse abitazioni, raggiungo gli altri per la colazione servita da silenziose cameriere Navaho. Oggi si parte presto, dovremo fare parecchi km per tornare nello Utah e visitare l’Arches Park, il parco degli archi di roccia! Stefano, sempre prodigo di spiegazioni al microfono ci parla anche di tradizioni dei nativi americani, come ad esempio la danza della pioggia con l’utilizzo di un serpente a sonagli che viene messo all’interno di un cerchio sul terreno, se esce dal circolo significa che pioverà, poiché è andato a chiamare il dio della pioggia… “E in genere piove sul serio!” Ci dice spalancando gli occhi… Facciamo qualche acquisto di souvenir indiani fermandoci presso un piccolo villaggio del Far West ricostruito prima del pranzo a Monticello, paesino dei Mormoni, in cui compriamo qualche panino in un market.
Stefano una volta risaliti tutti sul pullman ci offre gentilmente un po’ di uva e percorriamo la stessa strada che nel 2002, la notte delle Leonidi avevamo fatto a caccia del sereno, ricordo perfettamente il laghetto nei pressi di Window Rock in cui ci eravamo fermati per qualche foto e ripresa video delle meteore prima di raggiungere la nostra destinazione finale a Gallup in New Mexixo… che avventura quella notte!
Ci fermiamo poco prima di entrare all’Arches, che allora non avevo visitato, per una sosta fotografica lungo la strada alle “The Three Gossips” o “3 Comari”, pinnacoli di roccia immersi in un terreno sabbioso rossiccio e poco dopo è la volta della “ Balanced Rock” su una montagna che vediamo passarci a fianco lungo la strada. Stiamo entrando nello spettacolare Arches Park, che vanta il più grande numero di archi naturali in pietra del mondo: oltre 2000 archi, tra piccoli e grandi, creati anche qui nel corso dei millenni dagli agenti atmosferici. Con Stefano capiamo la fattibilità di una visita al Delicate Arch, uno dei più famosi del parco, ma ci vorrebbe troppo tempo (5 km di cammino) , possiamo però vederlo da lontano facendo una breve passeggiata fino all’Upper Delicate Arch Viewpoint. Percorriamo così un facile sentiero in salita, passando accanto a cespugli di ginepro e a grandi rocce, in alcuni casi di un colore verdastro dovuto al diverso stato di ossidazione del Ferro.
Vediamo finalmente comparire in lontananza su un’altura di colore chiaro il Delicate Arch, che appare maestoso e spettacolare anche da questa distanza, è alto 14 m e le persone da qui sembrano formiche che si spostano in fila per fotografarsi con l’arco sullo sfondo. Anche in questo caso il gruppo mi chiede qualcosa sulla geologia della zona. Contrariamente ad altre regioni in cui l’erosione ha dato origine a formazioni dai profili spesso aguzzi ed appuntiti, qui gli agenti atmosferici hanno modellato forme arrotondate dai contorni smussati, gli archi appunto.
Il motivo di queste forme si deve al fatto che gli strati di arenaria di quest’area poggiano su un rigido strato di sale, che per il peso si è fratturato in piani verticali che a loro volta si sono propagati sulla massa rocciosa superiore. Su questi piani ha agito l’acqua: all’interno, creando fessure e finestre e all’esterno insieme al vento, asportando i detriti. Nel lasso di migliaia di anni queste cavità sono diventate archi di dimensioni ragguardevoli! Gli stessi elementi e le stesse forze che hanno concorso a creare gli archi finiranno poi per distruggerli facendoli crollare come già successo per diversi di loro.
Risaliamo sul pullman per raggiungere un’importante area disseminata di archi chiamata Garden of Eden, dopo aver svoltato all’altezza di Balanced Rock e aver preso la Windows Road. A darci il benvenuto ci sono tutta una serie di imponenti formazioni rocciose come la Cove of Caves e la Parade of Elephants veramente simili ad elefanti con la proboscide, visibili dalla strada.
Imbocchiamo quindi un sentiero a piedi per arrivare alle vere attrazioni della zona: le North e South Window (2 archi adiacenti l’uno all’altro), il Turret Arch (arco sovrastato da una torre) e il Double Arch (un maestoso arco a doppia volta) con colorazioni che vanno dal rossiccio all’arancione, con sfumature rosate e color salmone. Con Roberto e Betta ci avviciniamo a questi enormi archi che sembrano parlare, forse è il vento che soffia tra le fenditure o forse è la suggestione del Grande Spirito dei popoli che qui vi abitavano. In questo come in altri luoghi che abbiamo visitato emerge la grandiosità e sacralità della natura, basta fermarsi e girare lo sguardo attorno…
A testimonianza della spettacolarità del luogo, anche qui sono state girate alcune sequenze di famosi film come”Thelma e Luise” con Susan Sarandon e Gena Davis e “Indiana Jones, l’ultima crociata” con Harrison Ford e Sean Connery.
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Riprendiamo la marcia di ritorno a Kayenta e fermandoci per una sosta tecnica ad un distributore, indico ai partecipanti 2 luminosi pareli a 22° dal sole, dovuti a fenomeni di rifrazione della luce solare che passa attraverso i cristalli di ghiaccio di nubi sottili come i cirri. Una rapida cena al nostro residence a base di controfiletto con patate fritte e verdure e poi a letto, domani è il grande giorno dell’eclisse e ci aspetta un’altra alzataccia, meglio essere in forma. Maria, il medico della spedizione, con il supporto della farmacista Giulia, si sta prendendo cura delle acciaccate Lia e Rosanna a cui oggi si è aggiunto Stefano per una botta alla schiena…
14 Ottobre
Attorno alle 5.30 ci troviamo per prendere la colazione da asporto, che il personale Navaho ci ha preparato in cestini da ricuperare al ristorante. Solerti ci impossessiamo dei cestini e ci sediamo pure per prenderci un caffè al tavolo in attesa di radunare il gruppo, fuori il cielo si è mantenuto limpidissimo, molto bene! Ma ecco entrare un gruppo di francesi, probabilmente anche loro qui per l’eclisse, la tour leader apostrofa Stefano alle ricerca dei loro cestini. Stefano si rivolge alla cameriera Navaho che alza le spalle e ha luogo un breve battibecco con la guida francese in cui ribadiamo i nostri accordi con la cameriera, i cestini sono nostri!
Saliamo velocemente sul pullman coi cestini quando è ancora buio, abbandonando i francesi al loro destino e procediamo per il Goosenecks State Park, lo spettacolare luogo destinato all’osservazione dell’eclisse, che si trova ad una mezz’ora da qui. Non sappiamo però quanta gente si è radunata per l’evento, meglio prenderci un discreto margine di tempo. Alla deviazione per il parco c’è infatti una pattuglia della polizia e diverse auto e camper in attesa. L’agente fa qualche domanda all’autista e a Stefano e abbiamo il via libera per procedere, un po’ di km in cui vediamo altre macchine parcheggiate sul ciglio della strada e ci mettiamo in fila in attesa che apra il parco.
Dal pullman attendiamo fiduciosi mentre albeggia ed Orione e Sirio sbiadiscono nel cielo turchese, ne approfitto per spiegare al gruppo il fenomeno dell’eclisse anulare di sole, che si verifica quando la Luna nel suo moto attorno alla Terra, passa esattamente davanti al Sole, ma in questo caso non lo copre tutto a causa di una sua maggiore distanza dalla Terra e lascia quindi scoperto una anello luminoso. La Luna appare cioè più piccola rispetto all’eclisse totale quando i due dischi sono perfettamente sovrapposti. All’apertura, attorno alle 7.00 siamo tra i primi e ci piazziamo in ottima posizione, proprio sul ciglio del burrone. Scendo col fedele telescopio Tansutzu, accompagnato dal resto del gruppo, la vista è veramente magnifica, il sole deve ancora sorgere ma c’è abbastanza luce per vedere sotto di noi quello che è riuscito a fare il San Juan River, che scorre placido 300 metri sotto di noi e che ha sagomato nel corso di migliaia di anni fantastiche formazioni rocciose.
Anche qui abbiamo a che fare con l’erosione fluviale, facilitata dal vento e dalle escursioni termiche, che hanno inciso il terreno in profondità, creando una serie di meandri tortuosi simili al collo di un’oca e molto simili anche all’Horseshoe band vista 2 giorni fa. Attorno alle 8.15 il sole sorge e con gli altri facciamo una passeggiata lungo il ciglio di questa stupenda terrazza naturale, per curiosare un po’ tra i numerosi astrofili che si stanno posizionando coi loro strumenti. Ce ne sono alcuni che hanno portato veramente grandi telescopi, con diametro superiore ai 30 cm, e sofisticati filtri H-alfa per ammirare anche le protuberanze solari. Gli astrofili, per lo più di nazionalità americana, concedono volentieri ai curiosi uno sguardo ai loro strumenti e faccio conoscenza con un’anziana coppia che era stata nel 2001 come noi in Zambia al Chisamba Safari Lodge, in occasione dell’eclisse totale di quell’anno. Che coincidenza!
Fa fresco e stringendoci nei giubbotti passiamo di fianco ad un indiano che vende amuleti, fossili e minerali della zona. Per i nativi, l’eclisse rappresenta un momento di passaggio e trasformazione, in cui è opportuno meditare e fermare tutte le attività per l’intera giornata. Torno alla nostra postazione dove Roberto sfoggia una maglietta con le foto di tutte le eclissi viste (ce ne sono veramente parecchie!) mentre armeggia al teleobiettivo e alla montatura MTO. Betta invece prepara il binocolo che monta come filtro un paio di occhialini per l’eclisse opportunamente fissati. Sono le 9.10, l’eclisse inizia ufficialmente, una leggera intaccatura dall’alto indica l’inizio del fenomeno, il gruppo indossa gli occhialini che ho consegnato all’inizio del viaggio e partono i primi scatti fotografici e i primi video.
Nel frattempo il ciglio del Goosenecks si è riempito, ci saranno un migliaio di persone tutte affollate sul dirupo, chi con sedie e sdrai o semplicemente in piedi. E’ il momento di mostrare al gruppo il sole che si è alzato bene sopra l’orizzonte col mio Tansutzu. “Che meraviglia! “Dice Maria accorsa all’oculare, seguita da Rosanna, “Perbacco!”e via via da tutti gli altri. Pure Stefano ed Aaron sono affascinati da questo fenomeno celeste che ha avuto così tanto richiamo.
Vanno e tornano all’oculare del telescopio man mano che il disco nero della Luna avanza sul sole, ma anche la visione ai binocoli e al teleobiettivo di Roberto o più semplicemente ad occhio nudo con gli occhialini è veramente suggestiva. E’ sempre bene ricordare di non osservare mai il sole direttamente senza l’uso di occhialini o filtri per non rischiare di rimanere accecati, anche durante la fase massima in cui comparirà l’anello. Manca mezz’ora al momento clou, la luce del paesaggio si è fatta spettrale e grigiastra, quasi polarizzata. “Che luce strana!” interviene Lia guardandosi attorno. Qualcuno prova anche a far passare la luce del sole eclissato attraverso le dita creando il fenomeno del foro stenopeico e proiettando piccole falcette sul terreno.
Ci siamo, la Luna ora è perfettamente centrata al disco del sole e compare il sottile anello di fuoco, “The ring of fire”, l’emozione è grande anche se è la mia quinta anulare e tutti accorrono al telescopio e al teleobiettivo, ma sorprendono anche i cellulari, che realizzano bellissime foto e video dell’anello celeste, in particolare quelli di Aaron e Maria, sono le 10.31. L’eclisse dura come previsto 4 minuti e 45 secondi, ci troviamo in uno dei luoghi di massima durata del fenomeno, nonché in uno dei più suggestivi in assoluto. Avrebbe dovuto raggiungerci anche Fabrizio Melandri, storico cacciatore solitario di eclissi e grande astrofotografo, sentito in questi giorni, ma ha preferito fermarsi in Nevada vicino alla località di Eureka visto che avrebbe dovuto fare più di 600 km per arrivare al Goosenecks. Mi racconterà che ha avuto problemi con le nuvole nella prima parte dell’eclisse e ha faticato a vedere i grani di Baily.
Da noi invece i grani di Baily sono ben visibili, soprattutto nelle foto di Roberto. Si notano come punti di luce quando il bordo della Luna tocca all’interno quello del sole e si formano per la presenza di montagne sul nostro satellite che fanno passare in modo selettivo la luce del sole. L’eclisse termina alle 12,01, anche questa missione è compiuta! E’ stata un’eclisse particolarmente luminosa, il buio sì c’è stato, ma meno accentuato di altre volte, probabilmente per l’estrema limpidezza del cielo. Risaliti sul pullman facciamo ritorno a Kayenta facendo però una sosta su richiesta di Matias al Forrest Gump Point, una strada panoramica sullo sfondo della Monument Valley in cui Robert Zemeckis ha ambientato la scena dell’omonimo film in cui Tom Hancks dopo aver corso per 3 anni, decide di fermarsi.
Non manchiamo pure noi di scattarci qualche divertente foto fingendo di correre lungo la US 163 Scenic Drive, una lunghissima strada diritta che punta in lontananza verso i torrioni di roccia rossastra della Monument Valley che visiteremo l’indomani. Ma le emozioni di questa lunga giornata non sono ancora finite, prima di cena ci ritroviamo nella hall con Rosanna, che ha preparato per noi uno spettacolo di magia. “Si chiamano Serpentelli”, dice misteriosa…”Servono alcuni capelli da mettere in una bacinella d’acqua, un po’ di zucchero e vedremo dopo un opportuno rito i capelli sollevarsi in aria come serpentelli!”
Caspita! Siamo tutti veramente curiosi, Stefano compreso. Dopo che qualche volontario offre qualche capello, Rosanna ci fa sistemare attorno alla bacinella e dopo qualche attimo di raccoglimento, sbatte le mani sull’acqua, che schizza addosso ai malcapitati della prima fila! Uno scherzo dunque! Stefano rimane sbigottito, ad alcuni scappa una risata, ma brava Rosanna, ci hai fregati tutti!
Le risate continuano fino al tavolo, questa sera abbiamo una cena a base di Tacos Navajo con patate fritte, rotolo di carne e insalata e naturalmente un brindisi all’avvenuta eclissi e all’arguzia di Rosanna. Il gruppo è in ottima forma e gli acciacchi sembrano superati.
15 Ottobre
Dopo colazione, abbandoniamo Kayenta e ci mettiamo in viaggio per la Monument Valley, con in sottofondo le colonne sonore di Ennio Morricone e dei film western di Sergio Leone, naturalmente scelte da Stefano per l’occasione. Anche se in realtà, ci dice, quest’area è più legata al nome del regista John Ford, grazie ai suoi numerosi film con John Wayne , girati proprio qui. E’ in effetti una zona decisamente scenografica, facente sempre parte del Colorado Plateau, con protagonisti nuovamente i sedimenti di arenaria, rialzati da forze tettoniche e poi erosi a formare magnifiche torri, chiamate “Butte”, tipiche dell’immaginario Western e dei cartoni animati di Willy Coyote!
Quando vidi la Monument nel 2002 l’impatto fu impressionante, con le 3 “Butte” principali visibili all’ingresso del parco di un rosso acceso sul far del tramonto, stamattina appaiono invece contro sole, sempre spettacolari ma avremo sicuramente una visuale migliore più tardi alla fine del previsto tour con la jeep 4X4, quando il sole si sarà spostato. Attendiamo la nostra guida visitando alcune “hogan”case navajo in terra e legname.
Ecco la jeep 4X4, dietro ha un cassonato aperto, in cui sono stati ricavati alcuni posti a sedere, ci stiamo tutti, si parte! Cerchiamo di coprirci alla meglio con sciarpe e fazzoletti per non respirare la grande quantità di polvere che solleviamo e per riparaci dall’aria fredda mentre saliamo al John Ford Point, uno dei punti panoramici più spettacolari. Riconosco più in basso il primo punto osservativo delle Leonidi del 2002 che abbiamo dovuto abbandonare in fretta per l’arrivo di una perturbazione…
Scendiamo dal mezzo e ci guardiamo attorno, il colore dominante è il rosso, dalla sabbia sotto ai nostri piedi alle torri che svettano sull’altopiano, manca solo una diligenza inseguita dagli indiani a cavallo! Ma un cavallo in effetti c’è, poco lontano sul ciglio di un dirupo, ad uso dei turisti per foto panoramiche al costo di 10 dollari, come non lasciarsi sfuggire questa occasione! Tutti quanti ci mettiamo in fila per qualche scatto alla John Wayne da mandare ai parenti e agli amici rimasti a casa.
Stefano ci chiama a raccolta, deve mostrarci un altro punto spettacolare poco distante dalle Three sisters, 3 pinnacoli di roccia posti di fronte a un sentiero che percorriamo a piedi fino ad un nuovo panorama da selvaggio West, questo viaggio ci sta regalando paesaggi ed emozioni incredibili! Ci sediamo a turno su una grande roccia a strapiombo sulla vallata per farci qualche foto. L’orizzonte è lontano e luminoso in questa ennesima limpida giornata, le torri di arenaria rossa sembrano proprio enormi monumenti, le ammiriamo assorti mentre il vento porta via i pensieri e le preoccupazioni quotidiane. E’ il momento di tornare al Visitor Center dove ci attendono di nuovo le torri The Mittens e Merrick’s Butte che questa volta riusciamo a goderci con una migliore illuminazione, qualche souvenir e si riparte, la prossima meta è nientemeno che il Grand Canyon!
Lungo la strada Stefano ci parla però del triste destino dei nativi americani privati dei loro territori, ma anche del loro grande rispetto per la natura e a questo proposito ci legge qualche passo della lettera del Capo indiano Seattle al presidente USA Franklin Pierce, considerata ancora oggi una delle più belle e profonde dichiarazioni di rispetto dell’ambiente. Nel 1854 il “Grande Bianco” di Washington si offrì di acquistare una parte del territorio indiano e promise di istituirvi una “riserva” per il popolo indiano. La risposta del capo Seattle non si fece attendere :
“Come potete acquistare o vendere il cielo, il calore della terra? L’idea ci sembra strana…Se noi non possediamo la freschezza dell’aria, lo scintillio dell’acqua sotto il sole come e’ che voi potete acquistarli? Ogni parco di questa terra e’ sacro per il mio popolo… Noi siamo una parte della terra, e la terra fa parte di noi…Se vi vendiamo le nostre terre, voi dovrete ricordarvi, e insegnarlo ai vostri figli, che i fiumi sono i nostri e i vostri fratelli e dovrete dimostrare per i fiumi lo stesso affetto che dimostrerete ad un fratello… Sappiamo che l’uomo bianco non comprende i nostri costumi. Per lui una parte di terra e’ uguale all’altra..tratta sua madre, la terra, e suo fratello, il cielo, come se fossero semplicemente delle cose da acquistare, prendere e vendere… Il suo appetito divorerà tutta la terra e a lui non resterà che il deserto..Ma se decidiamo di accettare la proposta io porrò una condizione: l’uomo bianco dovrà rispettare le bestie che vivono su questa terra come se fossero suoi fratelli, la terra e’ la madre di tutti noi…”
Meditando su queste sagge parole, purtroppo mai rispettate, sfioriamo il painted desert, il deserto dipinto che magari vedremo meglio in un prossimo tour ed entriamo nel Grand Canyon National Park, sempre in Arizona, uno dei luoghi simbolo degli Stati Uniti; quando si pensa ai parchi, inevitabilmente il pensiero va a questo canyon, uno dei fenomeni geologici più incredibili che si possano vedere, profondo circa 1500m e lungo più 400 km! Ci sono svariati viewpoint da cui ammirarlo ma noi, essendo entrati dal south rim, effettuiamo la prima sosta al “Desert View”, accanto ad un negozio di souvenir che vende anche prodotti artigianali Navajo e Hopi e alla Watch Tower, una torre alta 21 metri che è stata progettata da Mary Colter nel 1932 su ispirazione delle torri di guardia degli antichi pueblos.
Davanti a noi si apre uno spettacolo grandioso: le pareti stratificate del canyon scendono verticali e molto più in basso scorre il Colorado River. Ancora una volta il fiume Colorado è il responsabile dell’erosione del plateau, portando alla luce strati geologici con la parte più antica che risale a ben 1,8 miliardi di anni fa, un vero e proprio libro aperto sulla storia della Terra! Come 20 anni fa essere qui è un momento veramente emozionante. Abbiamo una mezz’ora di tempo per fare foto e contemplare il panorama, poi il pullman ci porta al Bright Angel lodge, in cui Lia, Rosanna , Liana e Matias si separano dal gruppo per un giro in elicottero sul canyon che risulterà molto spettacolare.
Sulle prime anch’io vorrei partecipare ma un po’ di stanchezza mi induce a rimanere col resto del gruppo per una passeggiata sul ciglio del canyon, tra scoiattoli, chipmunk e uccelli variopinti, qualcuno vorrebbe scendere in basso, ma sarebbe complicato oltre che pericoloso a quest’ora. Ci godiamo quindi la meravigliosa vista sugli strati rocciosi che sprofondano negli abissi, ognuno caratterizzato da una sfumatura di colore differente dovuta alle diverse rocce ( arenaria, scisto e calcare) in tutta tranquillità. Qui abbiamo sicuramente la vista migliore sul canyon, per l’ampiezza del campo visivo, per la profondità verticale e per la lontananza del rim opposto, la cui distanza è praticamente impossibile da valutare. In linea d’aria tra le due sponde si arrivano a toccare i 27km!
Prendiamo un te’ con dolcetti all’interno del lodge in attesa degli altri e ricompattato il gruppo ci avviamo al Bright Angel Point in cui ammiriamo il Canyon al tramonto, con una bellissima e azzurrina ombra della Terra sovrastata dalla rosa Cinta di Venere, molto apprezzate da Giulia. Ma adesso anche le rocce del canyon si colorano di rosa, rosso e viola nella luce crepuscolare, stupendo!
Proprio qui incontriamo 2 ranger con un telescopio che si stanno preparando per la serata osservativa, ma noi, più comodamente decidiamo di effettuarla al nostro Yavapai Lodge East, un villaggio con casette e appartamenti indipendenti, proprio all’interno del parco. Uscendo per dirigermi a cena alla vicina Dining hall, controllo la situazione, il cielo è sufficientemente buio nonostante qualche faretto tra i cespugli e si presenta nero e pieno di stelle. Un piazzale proprio di fronte alle nostre stanze è poi l’ideale per posizionare il telescopio. C’è un bel po’ di gente radunata a cena ma Stefano ci spiega come effettuare velocemente il self service.
Trasporto quindi il telescopio all’esterno e sistemo oculare e contrappeso, il freddo si fa sentire, anche qui ci troviamo a più di 2000 m di quota, ma ciò è anche garanzia di cielo trasparente e assenza di foschia. Ben presto si raduna tutto il gruppo ed iniziamo le osservazioni inquadrando Giove con i suoi 4 satelliti galileiani che si presenta come un bel dischetto luminoso solcato da 2 bande parallele e circondato da 4 stelline. Matias osserva con entusiasmo, anche lui infatti possiede un telescopio, ma anche il resto del gruppo si affolla allo strumento e fioccano domande e curiosità.
Stefano tenta pure una foto astronomica col cellulare in cui si riconoscono molto bene il pianeta gigante e le Pleiadi. Ma ancora più interesse suscita Saturno, il pianeta con gli anelli, che al Tansutzu appaiono piccoli ma ben visibili. Poi è il momento di qualche stella, Vega per esempio, che mostra il suo colore azzurrino e successivamente Albireo, una stella doppia le cui componenti appaiono arancione e blu a causa della diversa età, la prima più “anziana” dell’altra. Terminiamo poi le osservazioni con le Pleiadi, un giovane ammasso aperto di stelle e infine con Sirio, la stella più brillante del cielo.
16 ottobre
Al mattino siamo svegliati da alcuni cervi che stanno pascolando nel bosco attorno ai nostri bungalows, ricordandoci che qui la fauna selvatica circola libera nel suo ambiente. E’ il momento di salutare il Grand Canyon e di metterci in viaggio per Scottsdale, nostra meta finale, con una tappa intermedia da me suggerita per arricchire ancora di più il nostro tour dal punto di vista astronomico: il Meteor Crater! Mi ero confrontato i giorni prima con Stefano e Aaron per capire la fattibilità della deviazione e fatti un po’ di conti chilometrici la cosa risulta possibile. Un rapido sondaggio col resto dei partecipanti ed il dado è tratto.
Chiamato anche Cratere Barringer, dal nome dello studioso che ne capì la vera natura nel 1903, è sicuramente il cratere meteorico più spettacolare e meglio conservato presente sul nostro pianeta. Come nel 2002, accedo al cratere dal centro visitatori, arricchito oggi da un museo interattivo, il Meteor Crater Interactive Discovery Center che, con le sue esposizioni multimediali e i numerosi reperti, rappresenta una vera e propria manna per gli amanti dello spazio. Ovviamente non può mancare un fornitissimo gift shop in cui trovare di tutto, dalle magliette ai cappellini, passando per i magneti, le tazze e i portachiavi a tema, oltre ad un vasto assortimento di rocce e minerali.
Durante gli anni ’60 e ’70 il fondo del Meteor Crater fu anche usato per addestrare gli astronauti della NASA che si stavano preparando per le missioni Apollo e a testimonianza di questo, all’interno del Centro Visitatori, su un terrazzo che porta al bordo del cratere, si trova una capsula di test dell’Apollo 11. Seguendo le indicazioni dei percorsi di osservazione che si snodano sui bordi esterni e salendo un po’ di scalini, arriviamo finalmente ad affacciarci sull’immensa voragine circolare.
Raduno i compagni di viaggio e cercando di imitare Piero o Alberto Angela, spiego che questa cicatrice cosmica ha un diametro di circa 1,2 km ed è il prodotto di una collisione avvenuta 50.000 anni fa con un piccolo asteroide di 50m che viaggiava ad oltre 40.000 miglia all’ora. Quando il meteorite ha raggiunto l’atmosfera terrestre, l’attrito ha generato una straordinaria quantità di calore, facendo fondere la maggior parte del corpo celeste. Nonostante la perdita di massa, il frammento residuo di nichel e ferro, che pesava 300.000 tonnellate, ha continuato il suo viaggio verso la superficie e l’impatto è stato talmente devastante da essere paragonato ad un’esplosione da 10 megatoni, molto più della bomba atomica che distrusse Hiroshima.
In pochi secondi si formò un cratere di 200m di profondità, blocchi di calcare anche delle dimensioni di piccole case furono lanciati a km dal luogo dell’impatto e strati orizzontali di roccia vennero frantumati in pochi secondi e innalzati in modo permanente di più di 45 metri. Si generò così tanto calore che l’oggetto si vaporizzò quasi completamente. Il frammento più grande, di 630 kg, lo ammiriamo proprio all’interno del Visitor Center dove non può mancare una foto con questo killer cosmico. L’esplosione fu sì devastante ma niente a che vedere con l’estinzione di massa che subirono i dinosauri 65 milioni di anni fa, quando vennero spazzati via da un asteroide di 10 km di diametro caduto nel Golfo del Messico… ma questa è un’altra storia…
Alcuni un po’ preoccupati mi chiedono cosa si potrebbe fare oggi se dovessimo scoprire un asteroide o cometa in rotta di collisione con la Terra. A questo proposito la NASA ha già sperimentato con successo un sistema di difesa planetaria. Nel settembre del 2022, dopo anni di pianificazione, l’agenzia ha condotto un test in cui ha fatto schiantare una sonda contro Dimorphos, un asteroide del sistema solare, in orbita attorno a un asteroide più grande, Didymos. La traiettoria dell’asteroide è stata deviata, alterandone il periodo orbitale di circa 7 minuti. E’ stato quindi dimostrato come una simile strategia possa risultare efficace nel caso di un pericolo di questo tipo, naturalmente molto dipende dalla massa e dalle dimensioni dell’asteroide, ma questa sembra la strada giusta da percorrere.
Riprendiamo la marcia di avvicinamento a Scottsdale, alla periferia di Phoenix con una sosta per fotografare alcuni spettacolari cactus Saguari nel deserto di Sonora. “Fate attenzione a serpenti e ragni tra i cespugli!” ci avverte Stefano, ma fortunatamente, a parte il caldo non abbiamo particolari problemi. Un po’ di riposo al nostro albergo Laquinta Inn & Suites prima dell’ultima cena al ristorante la” Buca di Beppo”, un posto estremamente kitch e pacchiano, in cui si mescolano luci colorate, soprammobili di tutti i tipi, foto di personaggi bizzarri, rosari e addirittura il busto di un papa in una teca! Il nostro tavolo è allestito in una sala che sembra un bus pakistano a Islamabad tanto è piena di ninnoli e decorazioni e un po’ perplessi consumiamo una cena a base di Caesar Salad con mela e Gorgonzola, spaghetti al ragù, penne al basilico, pollo al limone e cheescake.
Appesantiti ci alziamo poco dopo, in piena notte, per il trasferimento all’aeroporto di Phoenix, ci attende il volo per Atlanta e da qui a Malpensa. Salutiamo Stefano una guida assolutamente perfetta e Aaron, autista altrettanto affidabile e sicuro, ringraziandoli per lo stupendo viaggio che ci hanno fatto vivere e ripromettendoci di rimanere in contatto in futuro. Un grazie anche a tutti i partecipanti con cui si è instaurata una perfetta armonia e che hanno reso questo viaggio unico.
LE FOTO SONO DI:
Aaron, Isabella Calestani, Maria Civetta, Massimiliano Di Giuseppe, Roberto Iorio, Sara Mesini, Lia Pallone, Stefano Raspi, Mattias Riccardi, Elisabetta Stepanoff,