ETIOPIA 2018: alla ricerca dell’Arca perduta!
di Massimiliano Di Giuseppe
Ci avevamo provato nel Gennaio 2012 a visitare l’Etiopia e la Dancalia, ma l’annuncio di un attentato pochi giorni prima della nostra partenza, che era costato la vita a 5 turisti ad opera di un commando eritreo, proprio nei pressi del vulcano Erta Ale, una delle nostre mete, ci aveva indotto a rinunciare. Passati 6 anni e calmatesi le acque, rimettiamo in piedi l’organizzazione e siamo pronti a partire per questo affascinante paese, ancora al di fuori delle principali rotte turistiche , il periodo prescelto è Febbraio 2018.
Ma a Dicembre nuova doccia fredda, un nuovo attacco con uccisione di un turista europeo sempre nella zona dell’Erta Ale fa vacillare ancora una volta il viaggio, a darci notizia l’amico e compagno di viaggi Enrico Castiglia che rinuncia a iscriversi e come nel 2012 abbandona il suo sogno di visitare la Dancalia. Ma non tutto è perduto, ad un’analisi più precisa dei fatti si scopre che la vittima era sprovvista di scorta ( obbligatoria in quelle zone ) e il tragico avvenimento è stato un episodio isolato, un tentativo di furto finito male…
Un rapido sondaggio con gli altri partecipanti, un occhio al sito della Farnesina che dà il via libera insieme al benestare finale di Robintur ci fanno prendere la decisione definitiva: si decide di partire…sarà un’avventura!
Ci ritroviamo quindi il 10 Febbraio prima a Malpensa con l’ormai imprescindibile Esther Dembitzer e la nuova arrivata Clara Busnelli e poi allo scalo successivo di Roma con i vecchi compagni di viaggio Enzo Pincini, l’ultima volta con noi in Australia, Graziella Balboni, fresca del Wyoming e Alberto Palazzi che non vedevo dal viaggio in Oman del 2014. A loro si aggiungono i nuovi Claudia Zama, Solisca Pederzoli, Rosalia Romani, Giammario Marzocchi e Monica Gori.
Un comodo volo notturno ci porta ad Addis Abeba in cui arriviamo nelle prime ore del mattino, facciamo conoscenza con la nostra guida Abenazir, detto Abi, un giovane etiope dallo sguardo fiero che ci porta a far colazione in un locale ben fornito non lontano dall’aeroporto dove assaggiamo pure un cappuccino niente male. Saliamo sulle nostre jeep affrontando le strade dissestate della periferia di una città che ci appare ad un primo sguardo piuttosto disordinata e caotica.
Ci fermiamo a pranzo nella cittadina di Adama, presso un hotel ristorante con piscina in cui cominciamo a far conoscenza con le specialità locali, ad esempio l’enjera il piatto base della cucina etiope ed eritrea, una sorta di crèpe spugnosa preparata con la farina di teff, un cereale originario degli altopiani, lo shiro, una crema di ceci o fave piccante e gustosa, da accompagnare con enjera o riso basmati e il berberè una miscela di spezie, la cui composizione è tradizionalmente: peperoncino, zenzero, chiodo di garofano, coriandolo, ruta comune e ajowan.
Alberto apprezzerà in particolar modo il berberè, che da qui in avanti non mancherà mai sulle nostre tavole!
Risaliamo in jeep per fermarci più avanti al piccolo villaggio di Metehara, per comprare un po’ di arance e qualche foglia di Qat, che in Etiopia si usa masticare liberando in bocca una sostanza di natura anfetaminica, euforizzante e reprimente lo stimolo della fame. Abi le offre anche a noi, ma rinunciamo all’assaggio. Siamo dentro alla rift valley , la gigantesca frattura tettonica che si allarga di 1,5cm all’anno e che fa sì che fra 1 milione di anni il corno d’Africa si staccherà dal continente. E’ per questo motivo, ci dice Abi indicando le pareti dell’Acrocoro in lontananza, che le strade sono così mal ridotte, il continuo movimento della faglia distrugge l’asfalto!
La giornata è limpida e calda, ci siamo abbassati di quota dai 2500m della capitale a circa 1000m, passiamo di fianco al lago Basaka ed entriamo nel parco nazionale di Awash, una vasta area dichiarata protetta nel 1996 che ospita una fauna variegata: zebre, antilopi, leoni, 400 specie di uccelli e una vegetazione arborea che grazie alla presenza del fiume omonimo, cresce un po’ più rigogliosa rispetto alla circostante area semidesertica.
Nella luce radente del tramonto osserviamo diversi orici tra i cespugli di tamarindo e numerosi nidi di uccelli tessitori che spuntano sulle acacie spinose. Dopo una sosta in attesa della terza jeep che ha forato, in questo mini-safari riusciamo a scovare anche un facocero e un’aquila poi scendiamo a piedi per vedere da un punto panoramico un magnifico canyon sul fiume Awash, che mi riporta ad atmosfere primordiali vissute nel 2001 nella regione dello Swaziland in Sudafrica.
Il sistema di valli del basso corso del fiume, ci racconta Abi, sono divenuti Patrimonio dell’Umanità dell’ Unesco per via di ritrovamenti paleontologici di enorme valore, fra i quali lo scheletro della famosa Lucy, l’australopiteco vissuto qui 3,2 milioni di anni fa e scoperto nel 1974.
A poca distanza si trova il nostro Awash Falls Lodge, proprio di fronte ad alcune belle cascate che ammiriamo nel crepuscolo serale, con il fiume che precipita fragoroso con un salto di una decina di metri. Appoggiati i bagagli nei bungalows, ceniamo all’aperto con tavoli attorno al fuoco assieme a qualche altro turista. Il cielo è buio e pieno di stelle, con Orione Sirio e Canopo che ci tengono compagnia mentre assaggiamo le specialità locali fino alla cerimonia conclusiva del caffè, una tipica usanza etiope. Grazie ad Abi facciamo spegnere le poche luci del Lodge e la Via Lattea invernale si accende sopra di noi magnifica!
Esther è già pronta a fare foto con il Polarie ( la montatura su treppiede che insegue la rotazione della Terra), mentre io inizio la classica lezione di riconoscimento delle costellazioni con il laser agli interessati. E’ sempre un’emozione trovarsi sotto un cielo così spettacolare e rivedere l’emisfero australe con la Falsa Croce del Sud e la Nave Argo che stanno sorgendo dall’orizzonte est, mentre in basso a sud si intravede la Grande Nube di Magellano, una delle due galassie satelliti della nostra.
Le Pleiadi sopra le cascate, visibili da un’apertura della palafitta in legno che circonda lo spiazzo in cui abbiamo cenato, diventano invece lo spunto per alcune belle foto di Esther, i cui preparativi vengono seguiti con attenzione da Claudia e Solisca. Rimaniamo ancora un po’ fino a quando la stanchezza prende il sopravvento e induce a ritirarci nei nostri bungalow. Mi addormenterò col rumore delle cascate, in pace con me stesso.
12 Febbraio, ci si sveglia all’alba, con i suoni della natura e degli inservienti che iniziano le loro attività e ci ritroviamo tutti a colazione, apprezzando nella luce del giorno l’architettura in legno del Lodge ed il panorama che ci circonda. Arrivano Abi e gli autisti e si riprende il tour imboccando la grande arteria che collega la capitale col porto franco di Gibuti.
“Oggi attraverseremo una zona popolata da tribù nomadi di origine somala, non sempre amichevoli con i turisti!” ci avverte Abi mentre siamo assorti a fotografare aironi, buceri e babbuini sulla strada. E difatti le prime avvisaglie arrivano poco dopo quando ci fermiamo in un villaggio per la riparazione di una gomma. Enzo ci avverte infatti che alcuni bambini hanno iniziato a tirare sassi alla jeep e che volevano perfino salire a bordo, sono riusciti ad allontanarli solo quando l’autista ha finto di chiamare i rinforzi col cellulare… Cominciamo a rimpiangere la scorta, prevista solo nella zona dell’Ertale e del Dallol…mah, speriamo bene!
Facciamo pochi km in cui aumentano gli accampamenti dei nomadi con innumerevoli capre e siamo di nuovo fermi, davanti a noi una jeep bianca con turisti è circondata da un nugolo di indigeni gesticolanti e decisamente alterati. Abi scende per capire cos’è successo, il volto è scuro e si raccomanda di non muoversi, lo seguiamo con gli occhi mentre scompare all’interno della calca. L’attesa si fa lunga e le voci all’esterno diventano concitate, qualcuno dice qualcosa al nostro autista che scuote la testa.
L’atmosfera è tesa, ogni tanto qualche ragazzino batte le mani contro i vetri dei finestrini. Alberto che nel frattempo ha indossato il turbante diventando anche in questo viaggio “Albertofi”, si avvia con coraggio verso il luogo del contendere. “Conosco qualche parola di etiope, vedo di capire la situazione.” Mi dice mentre passa accanto alla nostra jeep, Graziella e Lia mi guardano preoccupate… Passa altro tempo e finalmente Albertofi ed Abi ritornano, la nostra guida sale in jeep ma assieme a lui si siede sul sedile anteriore anche un indigeno semi svestito e con un bastone in mano che inizia a parlare a voce alta al cellulare. Abi con aria rassegnata ordina all’autista di invertire la marcia e si accerta che anche le altre jeep facciano altrettanto, poi inizia a spiegarci l’accaduto.
Pare che qualche km prima una jeep dello stesso colore delle nostre e di quella che ci precede abbia investito un bambino ( qualche ammaccatura ad una gamba ma niente di più ), la tribù ora vuole trovare il colpevole e ferma tutte le jeep dello stesso colore…Ci guardiamo sbigottiti”Ma non si può chiamare la polizia?” Abi si gira con un sorrisetto ironico :”Qui la legge sono loro e bisogna fare quello che dicono, ho cercato di spiegare che non siamo stati noi, ma deciderà l’autorità del villaggio o meglio il capo tribù…”
Caspita! Un sequestro in piena regola! Arriviamo al villaggio di Endifo e qui scendiamo accolti da spintoni e strattoni di un gruppo di bellicosi bambini che a modo loro cercano di familiarizzare, grande è la curiosità di vedere da vicino un gruppo di bianchi occidentali che sicuramente non si fermano qui nei loro percorsi. Mentre Abi si avvia a parlamentare col capo tribù, cerco di vivere la situazione come una rara occasione di incontro al di fuori di ogni standard turistico con questi nomadi e anche gli altri compagni di viaggio reagiscono nel modo migliore possibile alla preoccupazione e alla tensione del momento: si cerca di comunicare con il linguaggio dei gesti e con qualche parola in inglese o in italiano, che i bambini ripetono a pappagallo passando da un atteggiamento di sfida a quello più innocuo del gioco.
Un anziano ci invita a sederci all’ombra di una tettoia su qualche pelle di animale, le cose vanno infatti per le lunghe e il sole impietoso delle 13.00 comincia a farsi sentire. Alberto è quello più a suo agio in questa situazione e discorre serenamente con gli abitanti del villaggio, altri attendono in paziente silenzio che la cosa si risolva. Ogni tanto quella che pare la maestra del villaggio tira una manciata di sassi o qualche colpo di verga ai bambini troppo invadenti che immediatamente fuggono in una nuvola di polvere. Un metodo duro ma senz’altro efficace. Passa un’altra ora in un’attesa snervante e finalmente il capo villaggio, fatte tutte le verifiche del caso, stabilisce che siamo innocenti e che possiamo andare. Non è chiara invece la sorte dell’autista fermato prima di noi, dichiarato colpevole da alcuni testimoni, ma secondo Abi se la caverà con una generosa mancia.
Tiriamo un sospiro di sollievo e commentiamo la felice soluzione della vicenda. In casi come questi, riassume Abi, non bisogna mai mettersi di traverso, occorre avere pazienza e lasciare che si sfoghino, per questa gente il tempo non ha lo stesso significato che ha per noi. D’altra parte abbiamo appreso anche una grande lezione dall’Africa: il problema di un singolo ( in questo caso il bambino ferito) diventa un problema per tutta la comunità e tutti si adoperano per risolverlo…chiaramente a modo loro.
Riprendiamo la marcia e ci fermiamo a pranzo solo alle 16.30 nella cittadina di Logya in cui il nostro gruppo è atteso presso un punto di ristoro. Qui è già stato preparato tutto, anche l’acqua per lavarsi le mani e il te’ o shay. In un territorio sempre più arido e pietroso in cui vediamo zampettare un branco di gazzelle, arriviamo a Semera, la nostra meta finale e al nostro Agda Hotel. Siamo tutti piuttosto provati dalla giornata decisamente impegnativa, ma dopo cena ci ritroviamo sul terrazzo dell’hotel per un ripasso delle costellazioni col laser, il cielo è molto bello anche se le luci della città e dell’hotel un po’ infastidiscono. Non è ancora il momento di sfoderare il Dobson.
13 Febbraio, vengo svegliato da una bella ragazza delle pulizie che mi invita a liberare la camera e da uno struzzo che cammina nel vialetto dell’hotel, Abi e gli autisti ci stanno aspettando per caricare le jeep e per visitare il mercato di Asayita, la prima interessante tappa della giornata. Prendiamo un tè presso una locanda/guest house che offre per chi desidera passarvi la notte, alcune brandine all’aperto con vista fiume. Ci incamminiamo quindi al mercato, che ci appare piuttosto affollato, con mercanzie di ogni genere esposte all’aperto o sotto laceri tendoni e con una decina di dromedari che fanno bella mostra di sè in un largo spiazzo sterrato. “E’sempre bene chiedere alle persone prima di fare foto!”, ci avverte Abi. Anche gli Afar sono piuttosto orgogliosi e imprevedibili.
Ma questa volta non ci sono problemi. Osservo gli anziani seduti sulle stuoie, le contrattazioni tipiche dell’Africa, i bambini che ci guardano curiosi, i colori delle spezie e i dromedari con il loro tipico grugnito, l’atmosfera è decisamente più amichevole e rilassata.
Torniamo per il pranzo alla locanda di stamattina in cui assaggiamo il miglior berberè di tutto il viaggio, qualche istante di relax, recupero la telecamera lasciata in carica, poi il viaggio riprende. Altre gazzelle corrono su un terreno che diventa via via più desertico e pietroso, iniziando ad essere dominato da immense colate laviche relativamente recenti.
I poveri villaggi e le misere capanne a cupola degli Afar contrastano con la moderna strada asfaltata realizzata dai cinesi che stiamo percorrendo da stamattina per raggiungere il lago Afdera, nostra meta per il pernottamento. Ci appare in lontananza nel tardo pomeriggio da un punto panoramico: un vasto lago salato di colore azzurro pallido, circondato da saline e alimentato tutt’intorno da sorgenti termali provenienti dal sistema dell’Ertale.
Noto anche come lago Giulietti dal nome dell’esploratore di inizio ‘900 Giuseppe Maria Giulietti, si trova in una depressione oltre 110 metri sotto il livello del mare; l’evaporazione continua dell’acqua produce grandi depositi di sale, che viene estratto con fatica da operai che lo rompono e lo raccolgono in vasche proprio attorno al nostro campo tendato.
Il campo è piuttosto spartano, con operai che percuotono alcune impalcature e un via vai di locali intenti a immergersi nel lago e in una vicina pozza d’acqua calda. Ridono e schiamazzano passando tra le nostre tende, già montate in un boschetto di palme sulla riva. Fortunatamente al tramonto operai e locali se ne vanno facendoci apprezzare con il dovuto silenzio la selvaggia bellezza del lago Afdera, che Enzo e Giammario testano anche con una rilassante nuotata.
E’ pronta la cena, preparata dal nostro bravo cuoco Caffè e subito dopo siamo pronti per le osservazioni col Dobson a cui partecipano con curiosità anche Abi e gli autisti. Il cielo etiope anche sotto il livello del mare rimane magnifico e la nebulosa di Orione, altissima in cielo, rivela una gran quantità di dettagli e delicati filamenti, oltre naturalmente alle 4 stelle principali del Trapezio. Molto belle anche le Pleiadi, l’ammasso M35 nei Gemelli, h e X Persei e le abbaglianti Sirio e Canopo. Ripasso le costellazioni con Claudia e Solisca, che si stanno rivelando ottime allieve, riconoscendo già buona parte del cielo invernale, mentre Esther si intrattiene con gli autisti mostrando con orgoglio le foto astronomiche appena scattate.
Ma in quel momento arriva una richiesta di aiuto, si è alzato un forte vento che sta facendo volare via la tenda di Clara e occorre trovare un rimedio. Immediatamente Abi e autisti si precipitano a puntellare la tenda con macigni e con un grosso tronco, ma il vento soffierà imperterrito tutta notte con un grande frastuono e strattonamenti dei nostri giacigli. Raccolgo i fogli dello Sky Atlas volati ovunque e provo a coricarmi in tenda, ma Il rumore dei teli che sbattono mi costringerà a mettere i tappi per le orecchie per riuscire a dormire qualche ora. Alberto e Monica preferiscono dormire invece all’aperto sulle brandine, probabilmente la sistemazione più comoda.
All’alba del 14 Febbraio metto fuori la testa dalla tenda e vedo Enzo che non ha chiuso occhio tutta notte, mi racconta che temeva che il lago si fosse alzato arrivando a lambire la tenda, tanto era forte il frastuono della risacca. Mentre mi dirigo al nostro tavolo della colazione incrocio Monica a mollo nella pozza termale e Alberto seduto sulla brandina. Svegliandosi prima del sorgere del sole ha visto la Croce del Sud ed ha pure fotografato un sottile spicchio di Luna calante sul lago. Caffè ha già apparecchiato il tavolo e dopo una colazione piuttosto abbondante, siamo pronti per una visita guidata delle saline.
Sono state costruite e utilizzate per estrarre il prezioso minerale dalle acque del lago: l’acqua viene pompata all’interno di grandi vasche impermeabilizzate dove, dopo essere evaporata, lascia una spessa crosta di sale, che viene raccolto all’interno di grossi sacchi pesanti ognuno 50 kg.
Seguiamo la guida camminando sui bordi delle azzurrissime vasche di decantazione fino a una sorgente di acqua calda, qui si trova anche una carriola che l’omino riempie a badilate e porta di corsa in cima alla collinetta di sale. Lo seguiamo per ammirare il panorama all’alto, un gruppo di operai che lavorano in una vicina vasca ci salutano sorridendo nonostante la fatica. Riprendiamo la marcia e dopo un tè in un villaggio raccogliamo la nostra preziosa scorta composta dai due poliziotti Isee e Abdul, a loro spetterà il compito di proteggere il gruppo nell’attraversamento della zona più pericolosa di tutto il viaggio. Speriamo bene…
Si procede, il terreno diventa sabbioso e argilloso, con molta polvere sollevata dal vento, una mini tempesta di sabbia che le nostre jeep affrontano cercando di non perdersi di vista. Altre gazzelle annunciano l’arrivo al villaggio di Kusrewad e qui la tempesta si placa. Abi espleta le necessarie procedure per l’ottenimento dei permessi speciali per le visite di questa zona della Dancalia e noi intanto pranziamo all’interno di una capanna con panini e bibite condivise con alcuni bambini attirati dalla nostra presenza. In particolare la bambina più coraggiosa e intraprendente del gruppo si metterà a giocare a carte con Albertofi, ricevendo poi in premio da Clara un prezioso astuccio ove conservarle.
La pista si fa pietrosa e terribile, ma ormai siamo vicini alla meta, proprio stanotte infatti ci attende la mitica ascesa al vulcano Erta Ale, quasi non riusciamo a crederci quando lo vediamo fumare all’orizzonte. L’emozione è forte! Ecco che però il destino si mette di traverso e a fumare questa volta è il motore della nostra jeep, con ogni probabilità un problema alla cinghia e allo sterzo che ci costringono ad una sosta prolungata. Gli uomini della scorta scendono a scrutare l’orizzonte appollaiandosi sulle rocce. Per ora nessun movimento sospetto, attorno a noi c’è solo un’infinita distesa di basalti neri arroventati dal sole con l’orizzonte chiuso da una linea di antichi vulcani (il Chebril Ale, l’Aiu, il Gabull e il Borale).
Ci vuole l’impegno di tutti gli autisti ma alla fine il danno viene riparato e possiamo proseguire fino ad Askoma, il campo base da cui partono tutte le spedizioni per il vulcano. Trasferiamo il materiale che ci serve per la notte sui dromedari: l’acqua, i viveri e lo stretto necessario per superare una notte sulla cima dell’Erta Ale. I dromedari attendono accovacciati di fianco ad alcune capanne, ci guardano storto e si lamentano, conoscendo probabilmente la fatica che li attende… Al tramonto, dopo gli ultimi preparativi e una zuppetta energetica, siamo pronti a partire, ci attendono 5/6 ore di trekking per arrivare in cima.
Una cosa piuttosto impegnativa, anche se alcune guide riportano che gente allenata può impiegare meno di 3 ore per arrivare in vetta. “Non è il vostro caso…”, dice Abi squadrandoci dall’alto al basso. Esther, Graziella, Clara e Lia un po’ in ansia decidono di montare sui dromedari, tutti gli altri marceranno a piedi. Si parte in colonna, mai come in questo caso il nostro gruppo assomiglia alla mitica compagnia dell’anello del film “Il Signore degli anelli”, con in lontananza la nostra meta, l’Erta Ale, scuro e con un fumo di colore rosso cupo, una perfetta copia della dimora dell’occhio di Sauron nelle terre di Mordor…
Alberto è felice, l’Ertale è da sempre uno dei suoi sogni, una delle mete di cui si discuteva in viaggi passati, peccato che non siano con noi anche Maurilio ed Enrico con cui abbiamo condiviso tante avventure. La luce si fa grigiastra siamo costretti ad accendere le torce al calar della notte, proseguendo il trekking nell’oscurità. Passo dopo passo la fatica aumenta e il vulcano pare allontanarsi, la distanza totale da coprire è di 10 chilometri, con un dislivello di poco inferiore a 600 metri, quindi abbastanza dolce, ma il cammino si rivela comunque impegnativo e ci costringe a diverse fermate e a bere molta acqua.
Il silenzio ci avvolge, gli uomini della scorta scrutano l’oscurità con il Kalashnikov a portata di mano, qui sono avvenuti i recenti attentati, occorre avere prudenza e non uscire dal sentiero. Ma la nostra attenzione in quel momento è attirata da Graziella che pare non si senta bene, anzi sembra addirittura svenuta sul dromedario! Fermiamo la carovana e facciamo scendere Graziella stendendola a terra, arriva Alberto il medico della spedizione, che le versa un po’ d’acqua in testa mentre io tengo sollevate le gambe. Graziella rinviene, Il malessere sembra passato ma ecco che dopo pochi passi ci siamo di nuovo. Il continuo ondeggiare sul dromedario unito alle fatiche di questi giorni purtroppo ne è la causa. Mi consulto con Abi, è meglio che Graziella torni al campo base accompagnata dalla nostra guida e da un uomo della scorta, a loro si aggiungerà anche Clara, preoccupata dalla fatica e dai km ancora da percorrere.
Salutiamo le nostre compagne di viaggio augurandoci di rivederle in forma l’indomani e proseguiamo la nostra strada. Il buio ora è completo, la torcia illumina i passi incerti della spedizione mentre sopra le teste esplode un cielo pieno di stelle, il più bello che vedremo in Etiopia.
Ci fermiamo un attimo a contemplarlo, le stelle, luminosissime fino all’orizzonte sembrano la cupola di un planetario e ogni tanto cade qualche meteora che attraversa la Via Lattea invernale e le sconosciute costellazioni australi. Rimarremmo a lungo ad ammirare un cielo che dalle nostre parti è un pallido ricordo, ma l’altra guida che è con noi, che parla solo etiope e qualche parola di inglese ci esorta a proseguire, la strada è ancora lunga.
Un gruppo di baldi giovani nordeuropei ci superano allegramente, poi è la volta di giapponesi con le inseparabili mascherine, spagnoli e via via un’infinità di persone anch’esse dirette al vulcano, tutti con un passo più veloce del nostro. Non pensavo assolutamente che ci fosse un turismo del genere all’Ertale, anche perché finora nel nostro tour abbiamo incontrato ben pochi occidentali. Chissà in cima che confusione… Ogni tanto Esther e Lia scendono dal dromedario per sgranchirsi le gambe approfittando delle pause, poi si riparte, ora il fumo rosso del vulcano è decisamente vicino, si sale per l’ultimo e più difficile tratto in salita. Ancora uno sforzo e tra una battuta e l’altra del buon Enzo, dopo 5 ore di cammino siamo in cima. Qui troviamo un accampamento con un sacco di gente, dromedari e capanne o meglio piccoli nuraghi in pietra che saranno il nostro riparo per la notte.
Il tempo di mangiare un po’ di riso in bianco con verdure e wurstel preparati in precedenza dal nostro cuoco e siamo pronti per avvicinarci al bordo dell’immenso cratere, c’è infatti ancora un po’ di strada da fare per ammirare il lago di lava permanente al suo interno, un fenomeno estremamente raro, visibile solo in altri 3 vulcani sul nostro pianeta: il Nyiragongo nella Repubblica Democratica del Congo, il Kilauea alle Hawaii e l’Erebus in Antartide. La faglia che attraversa la depressione, che provoca l’allontanamento della placca araba dalla placca africana, permette infatti la fuoriuscita di magma, fenomeno che normalmente avviene solo nelle dorsali oceaniche, in mare aperto e a grande profondità, quindi molto più difficile da osservare.
Il fumo rosso del vulcano e le nostre torce illuminano un suolo lunare dominato da impressionanti colate laviche di varia età e da una gigantesca parete di ossidiana che incombe sinistramente. Camminando emozionati come astronauti su un mondo alieno, avanziamo lentamente sul nero basalto vetrificato che scricchiola e si sgretola ad ogni nostro passo.
Ecco ci siamo, siamo arrivati al bordo del cratere, la guida preoccupata per la nostra sicurezza non vuole che ci avviciniamo troppo ma Alberto è il primo a sbirciare all’interno avvolto da un denso fumo acre. Poco dopo tutti quanti ci sporgiamo cercando di vedere la lava ma con grande delusione non vediamo nulla, il fumo è troppo e nasconde la vista di questa meraviglia della natura. Proviamo anche un po’ più avanti ma il risultato è lo stesso…nulla…un vero peccato, chissà quando e se ci capiterà un’altra occasione…
Torniamo rassegnati sui nostri passi, anche se lo spettacolo visto merita in ogni caso e ci prepariamo a riposare quelle poche ore che ci separano dall’alba mentre la Croce del sud e Alfa e Beta Centauri sorgono proprio sopra il vulcano. E’ una notte fredda e agitata, che condivido nel nuraghe con Enzo, Alberto e Giammario, mentre le donne sono in quello accanto. Continue raffiche di vento squassano il tetto di arbusti e lamiera che sembra crollare da un momento all’altro. Da alcuni grandi fori occhieggiano Saturno, Giove e il rosso Marte, luminosissimo, ben avviato alla grande opposizione di Luglio, uniche presenze confortanti nella cupa notte etiope.
15 Febbraio, lentamente il campo riprende vita, l’alba sull’Ertale è meravigliosa, un po’ meno la nostra guida, che si sveglia un’ora dopo di noi e ancora meno i cammellieri che si dimenticheranno di caricare cavalletto e il Polarie di Esther sul dromedario nella nostra discesa a valle. Il ritorno è come sempre meno faticoso e più veloce e ci consente di apprezzare al meglio i panorami basaltici della piana di Dodom, che il buio della notte ci aveva nascosto e solo attorno a mezzogiorno siamo al campo base, dove ritroviamo una Graziella fortunatamente ristabilita.
Dopo una robusta colazione e dopo aver ricaricato i bagagli sulle jeep la nostra marcia riprende percorrendo a ritroso la strada dell’andata con un’unica sosta a Rabte per il pranzo. Visto il ritardo accumulato rinunciamo ad arrivare fino ad Hamedela come previsto inizialmente da programma e ci fermiamo per la notte in una modesta guest-house nel villaggio di Abala. Dovremo dormire sui materassini in due stanzoni suddivisi al solito fra uomini e donne ma per queste ultime la sistemazione è troppo spartana. Con Abi si cercano altre soluzioni ma non ci sono alloggi nelle vicinanze e dovremo adattarci. Tra l’altro qui ci sarà la possibilità di fare una comoda cena e una doccia, cosa di cui si sente la mancanza da un paio di giorni.
“Ma come facciamo se nel bagno non c’è l’acqua corrente?”chiede allarmata Monica. “Molto semplice”risponde Abi, nei villaggi etiopi la doccia consiste in un mastello che viene riempito d’acqua da una cisterna e che poi ci si rovescia addosso …
Facciamo buon viso a cattivo gioco e ognuno si sistema alla meglio, ad Alberto, il dottore, viene concesso l’unico letto della guest-house, matrimoniale e piuttosto sfarzoso, il resto degli uomini si sistemerà alla meglio a terra cercando di ignorare i numerosi bacherozzi che tentano di salire sui materassini, le donne avranno invece i divanetti dell’altra stanza. Tutti sprofondiamo in un sonno profondo dopo le fatiche dell’Ertale.
16 Febbraio siamo svegliati all’alba dalle preghiere del Muezzin che si mescolano ai miagolii del gatto della guest-house, lentamente riprendiamo conoscenza e quando è ancora buio ci sediamo a tavola nel piccolo cortile per la colazione, fa piuttosto fresco. Poco dopo un’alba radiosa tinge di arancione l’orizzonte est mentre le jeep lasciano il villaggio per dirigersi verso un’altra affascinante tappa di questo viaggio sempre più avventuroso: la depressione del Dallol, “il luogo degli spiriti”!
Facciamo una sosta al villaggio di Bere Ale, dove in una locanda gestita da madre e figlia si rinnova la tradizionale preparazione del caffè, con i chicchi tostati e profumati il cui aroma si diffonde ovunque e che le padrone di casa ci portano ad annusare. Enzo è entusiasta sia per il caffè che per la bellezza ed eleganza delle donne etiopi. Entriamo quindi nella piana di sale, antico fondale marino del Dallol e al villaggio di Hamedela, qui tutto è grigiastro, sia il cielo pieno di polvere in sospensione trasportata dal vento che il terreno. In questo luogo desolato si estrae il sale in blocchi, il cosiddetto “Amole”che una volta veniva usato come mezzo di scambio e che anche oggi viene trasportato a bordo di dromedari sugli altopiani o in Sudan.
Più che un villaggio, è un accampamento invernale dove gli Afar giungono dalle montagne per sfruttare la breve stagione “fresca” in Dancalia, raccogliendo e trasportando il sale dal deserto. Ci troviamo infatti circa 100 metri sotto il livello del mare, nel punto più caldo del mondo, con la sua temperatura media di oltre 34 gradi. Durante l’estate il calore può arrivare frequentemente a 60 gradi, rendendo la vita impossibile. L’unico periodo in cui si possono prevedere visite è quello invernale che va da Dicembre a Marzo.
Da Hamedela all’alba partono le carovane di dromedari per la miniera di sale, spettacolo che purtroppo ci siamo persi a causa del ritardo di ieri…Lasciamo la nostra scorta, salutiamo Isee e Abdul ringraziandoli per la loro protezione e ne raccogliamo un’altra necessaria anche in questa zona, che si trova molto vicina al pericoloso confine con l’Eritrea.
Percorriamo con le jeep un tratto di questa landa salina e desertica avvicinandoci al cratere Dallol, risultato dell’esplosione e collasso di una camera magmatica della Rift-Valley, posta sotto un importante deposito di sale, lasciato dopo che il Mar Rosso si era ritirato da questa depressione. E’ considerato uno dei posti più inospitali della Terra ma anche una meraviglia geologica del nostro pianeta, l’unico vulcano al mondo sulla terraferma, avente un cratere collassato sotto il livello del mare! Abi ci fa scendere, dovremo ora camminare per una mezz’oretta per arrivare al centro del cratere: “Ogni volta lo spettacolo è diverso: è materia in continuo movimento e mutamento”, ci dice mentre ci precede con gli uomini della scorta lungo il sentiero.
Tutti abbiamo con noi le bottiglie d’acqua indispensabili a queste temperature, ci sono 43°anche se un leggero venticello li rende perfettamente sopportabili.
Dopo pochi passi il paesaggio diventa stranissimo, il sentiero fiancheggia una distesa infinita di concrezioni spugnose a forma di terrazza o di fungo che somigliano molto a una barriera corallina. Ci troviamo a 80 metri sotto il livello del mare e verrebbe spontaneo associarle a coralli, spugne o antiche anfore frutto di qualche naufragio. Ma non si tratta di nulla di tutto questo: è infatti il risultato di un lento ed incessabile lavoro della natura, dei geyser e delle fumarole che depositano zolfo ed altri minerali, i quali si accumulano in bizzarre concrezioni che crescono con il tempo.
Da una collinetta ci appaiono a perdita d’occhio sorgenti e laghetti caldi e acidi, montagne di zolfo, coni di sale, piccoli geyser gassosi, incorniciati da cristalli di sale e concrezioni, il tutto su un fondo bianco, giallo, verde, arancione o rosso ocra, colori dati dalla forte presenza di zolfo, ossido di ferro, e di vari altri minerali. Ci guardiamo stupefatti e le foto partono a raffica. Potremmo tranquillamente trovarci su Io, la luna vulcanica di Giove o su qualche strano pianeta di Star Wars o Star Trek. Un paesaggio affascinante ma anche al tempo stesso molto pericoloso: “Dallol” significa infatti “disciolto”, in riferimento alle molte sorgenti acide che spesso diventano trappole mortali per animali e uomini.
Le guide si raccomandano di non allontanarci e restare uniti ma il posto è talmente eccezionale che è inevitabile che ci si attardi ognuno preso a fotografare un particolare che lo attira di più: chi le geometrie bizzarre delle concrezioni e dei cristalli, chi le sorgenti sulfuree, i piccoli geysers perennemente attivi oppure i colori sorprendenti e psichedelici del terreno alternati senza una logica apparente. Passeggiamo tra gli strani gorgoglii dei geyser e i vapori che tolgono il respiro di un pericoloso laghetto verde, con tutta probabilità pieno di acido solforico. Ribolle per la temperatura e per i gas irritanti e infiammabili.
Ma non è finita, poiché nelle vicinanze si trovano anche le colonne di sale, formazioni minerali alte 40m altrettanto surreali ed incredibili. Siamo nel punto più basso della depressione a 130m sotto il livello del mare e le colonne ci appaiono improvvisamente come torri e pinnacoli di una città fantasma. Con la nostra astronave siamo atterrati su un altro pianeta alieno totalmente diverso dal precedente! Queste stranissime formazioni grigie sono state erose dal vento e dagli allagamenti stagionali. Le rocce sono molto friabili e sono costituite prevalentemente da sali di potassio e magnesio, intervallati da argille di colore rosso scuro.
Camminiamo un po’ fra i grandi faraglioni, persi a fantasticare su questo luogo assurdo, poi dopo una doverosa foto di gruppo torniamo a Bere Ale nella stessa locanda di stamattina per il pranzo. E’ giunto il momento di abbandonare l’affascinante e dura Dancalia e iniziamo a salire di quota verso la regione del Tigrai in cui passeremo i prossimi giorni, nostra destinazione finale è oggi il Wukro Lodge nei pressi dell’omonima località, che raggiungiamo nel tardo pomeriggio.
E’ un bellissimo lodge di montagna con grandi e comodi bungalows in pietra con tetti di paglia e un grande ristorante realizzato sempre nell’architettura tipica di questa regione. Salutiamo i nostri autisti e il cuoco ringraziandoli di tutto e ci rilassiamo un po’ dopo le fatiche e le emozioni dei giorni scorsi. Dopo cena, assieme ad Alberto, Enzo, Claudia e Solisca ci ritroviamo dietro al mio bungalow al riparo dei pochi faretti del lodge per qualche osservazione col Dobson. Dopo gli oggetti più famosi e dopo una doverosa occhiata a Cassiopea, la famosa “regina d’Etiopia” della leggenda, prendiamo di mira qualcosa di meno noto, come l’ammasso globulare M79 nella Lepre, sotto i piedi di Orione e poi, più in basso a sud est, nella Poppa entra nel campo dell’oculare un oggetto mai visto prima, l’ammasso aperto H2 o Harvard 2, piccolo e dalla forma triangolare.
Ho qualche difficoltà con la vetusta montatura del telescopio, messa a dura prova dai salti sulle jeep, ma altri due nuovi oggetti entrano nel campo dell’oculare: NGC 2467 una nebulosa diffusa chiamata anche “Nebulosa Teschio”, associata all’omonimo ammasso stellare aperto. Ha una forma vagamente circolare, la magnitudine è di 7,1, le dimensioni sono di 15’ed è lontana ben 17.000 anni luce! Ma è poca cosa rispetto alla galassia di Andromeda, puntualmente inquadrata, con la sua ragguardevole distanza di 2 milioni di anni luce. Mentre Alberto procede con le foto una dispettosa velatura arriva da ovest a guastare la festa, per stasera fine delle osservazioni.
17 Febbraio, a colazione si commentano le dimissioni del capo del governo etiope Hailemariam Desalegne. Per la prima volta nella storia dell’Etiopia (e di molti Paesi africani), un capo di governo si è dimesso non per una rivolta o per un golpe, ma per una crisi politica. Il primo ministro ha lasciato il suo incarico perché non riusciva a proseguire con le riforme che ritiene necessarie al suo Paese. Ora vige lo stato d’emergenza…ci mancava pure questa!
Pare comunque che al momento la situazione sia tranquilla e che si possa proseguire il viaggio come da programma. Saliamo su due minibus per dirigerci alla chiesa rupestre copta di Abraha Atsbeha, dedicata al sovrano axumita sotto il cui regno l’Etiopia si convertì al cristianesimo. Nel 330 d. C. il re Ezana il Grande la dichiarò infatti religione di stato e ordinò la costruzione dell’imponente basilica di Santa Maria di Sion. Dal 600 al 1600 d.C. sono state poi costruite una serie di chiese ortodosse etiopi e monasteri ipogei spettacolari in cima alle montagne o scavati nella roccia solida. Molti di questi sono ancora in uso oggi anche se molto difficili da raggiungere.
Sorretta da pilastri, con cupole e navate laterali, Abraha Atsbeha è una delle più grandi e interessanti chiese rupestri del Tigrai. A differenza delle altre chiese il cui accesso è spesso molto difficoltoso in questa si parcheggia abbastanza vicini. A piedi, attraverso una scalinata in pietra, coperta nel primo tratto da un grandissimo albero di Sicomoro, raggiungiamo un piccolo altipiano, da cui si gode un ampia vista sulla campagna circostante con fichi d’india giganteschi. Da qui si accede poi al cortile del monastero.
C’è un’atmosfera di pace, ci troviamo ad un’altitudine di 2200m e alcuni scoiattoli saltellano tra le antiche pietre, mentre Abi ci indica sul tetto della chiesa varie croci copte, ognuna col proprio significato rituale. Una volta arrivato il prete-custode entriamo nella chiesa monolitica, risalente al 7° secolo d.C, scavata nel tufo nel fianco della montagna in un unico blocco. Ci sediamo nella prima sala ascoltando le spiegazioni di Abi e ammirando i dipinti sulle pareti e sul soffitto: c’è abbastanza luce per vederli nei particolari, raffigurano la trinità, scene relative al nuovo testamento, ai santi e c’è perfino un’inquietante rappresentazione del demonio. Appoggiate ai muri ci sono invece stampelle per la preghiera, che servono ai fedeli per sorreggersi durante le lunghissime funzioni.
Dalla porta affrescata si entra nel santuario, più buio, con il Sancta Sanctorum coperto da tende rosse in cui solo i sacerdoti possono accedere e in cui si trova una copia della famosa Arca dell’Alleanza. Tra i tesori conservati nella chiesa vi è anche la croce appartenuta a Frumenzio, il primo vescovo della chiesa copta in Etiopia.
Dopo la visita scendiamo al vicino mercato, molto vivace e pittoresco, poi torniamo a pranzo al Wukro lodge. Si annuvola, riprendiamo nel pomeriggio le visite alle chiese rupestri, cominciando con quella di Medhane Alem Adi Kesho (XI secolo) che si raggiunge salendo su una ripida parete scivolosa con l’aiuto di un nugolo di svegli e insistenti ragazzini. Rappresenta una delle più antiche, alte e belle chiese del Tigrai.
La chiesa è molto suggestiva e particolarmente elaborato risulta il sistema di apertura e chiusura della porta con una lunga chiave di legno a forma di piolo legato ad una corda, che solo il sacerdote è in grado di aprire. All’interno il soffitto è sostenuto da sei enormi pilastri quadrati e tutto l’ambiente è piuttosto buio, tanto che le decorazioni alle parete si possono scorgere solo grazie all’ausilio di una torcia.
Durante la discesa inizia a cadere qualche goccia che rende insidioso il percorso, poi una volta arrivati ai pulmini la pioggia aumenta d’intensità, tanto che solo una parte del gruppo seguirà Abi nella visita delle successive due chiese, quella di Mikael Milhaizengi e di Petros e Paulos. Io decido di rimanere al riparo assieme a Graziella, Claudia Lia ed Alberto mentre fuori si scatena un temporale con potenti fulmini e scrosci abbondanti che innaffieranno a dovere i campi di euforbia a candelabro che ci circondano.
Dopo qualche tempo sono di ritorno, decisamente fradici, ma anche soddisfatti, soprattutto della seconda chiesa, raggiunta su uno sperone di roccia piuttosto ripido dopo essere saliti su una scala di legno veramente precaria. Petros e Pulos tra l’altro ha rivelato non solo dipinti murali di santi e angeli molto belli nella loro semplicità, ma anche l’Arca, stranamente lasciata alla vista del pubblico. Mentre Abi ci accompagna al nuovo lodge ci ricorda che qui vige il calendario giuliano ovvero oggi sarebbe l’11 settembre del 2020. Purtroppo le nuvole e il freddo umido persistono anche all’Agoro Lodge di Adigrat per cui ci ritiriamo in stanza rinunciando alle ultime osservazioni astronomiche del viaggio.
18 Febbraio, finalmente ritorna il sole sulla spedizione che si avventura lungo una strada che sale e scende lungo la mitica rift valley, siamo proprio sulla faglia, devo dire veramente impressionante nella sua imponenza! Dopo una sosta per il tè all’ombra di un fila di alberi, riprendiamo la marcia attraversando una zona del Tigrai, caratterizzata da un paesaggio aspro con grandi massicci montuosi chiamati Ambe, che spuntano all’orizzonte arrotondati e grigi. La prima tappa della giornata è il tempio di Yeha, o della Luna, un’affascinante testimonianza della storia millenaria dell’Etiopia.
Si tratta infatti dell’edificio più antico del Paese e dell’intera Africa a sud del Sahara: secondo le datazioni risalirebbe al 500 a.C, uno dei pochi resti della civiltà pre-axumita, edificato durante il Regno di Damot. Poco o nulla si sa circa le persone che hanno costruito questo grande edificio, le loro origini sono infatti avvolte nel mistero. Il tempio è stato costruito con blocchi di pietra senza malta ed è formato da una sola camera oblunga, probabilmente la piscina rituale, senza un tetto. Ci aggiriamo all’interno del tempio e attorno alla vicina e più recente chiesa ortodossa, circondata da menhir, seguendo con interesse le spiegazioni di Abi.
Veniamo quindi invitati ad entrare in un edificio attiguo alla chiesa, al cui ingresso ci viene offerta una strana e densa birra locale che solo Alberto ha il coraggio di assaggiare. Qui sono conservati importanti e antichi manoscritti che il custode assieme al suo gatto ci mostra con riverenza, tra questi alcune belle illustrazioni con i Re Magi e l’etiope Baldassarre. Ci recita la messa cantando alcuni versi e ci congeda augurandoci buon viaggio. Il nostro tour riprende passando per Adua, dove nel 1896 si svolse una cruenta battaglia durante il periodo oscuro della conquista coloniale, vinta alla fine dall’esercito abissino del Negus Menelik II contro l’armata italiana guidata dal tenente generale Oreste Baratieri.
Si sale di quota ed entriamo ad Axum e al nostro Sabean Hotel, un grande e confortevole albergo in cui ci preparano un buon pranzo. Un po’ di riposo e siamo pronti per le visite pomeridiane alla scoperta della capitale del regno axumita, uno dei più antichi e prosperi regni africani che rappresentò un crocevia fondamentale fra Asia e Africa per quasi mille anni…
Axum, ci racconta Abi, è la città che secondo le leggende narrate nel Kebre Nagast (il Libro dei Re) nel X secolo a.C. era il luogo di residenza della mitica Regina di Saba, nonché il sito in cui Menelik, primo imperatore etiope, figlio della Regina e di Re Salomone, avrebbe portato da Gerusalemme l’Arca dell’Alleanza contenente le Tavole della Legge consegnate, secondo la Bibbia, da Dio a Mosè. Tramite l’arca, Mosè era in grado addirittura di parlare con Dio che compariva seduto su un trono fra i due cherubini Metatron e Sandalphon che ornavano il coperchio dorato!
Oggi, sempre secondo la leggenda, l’Arca originale, sarebbe ancora ad Axum, conservata nella Cappella del Tabot, nei pressi della cattedrale di Nostra Signora Maria di Sion, ed è proprio lì che ci dirigiamo, verso uno dei luoghi più sacri e misteriosi del mondo! In realtà al nostro arrivo la cappella ci appare come una piccola costruzione quadrata quasi anonima,accanto alla vecchia chiesa e ad un grande albero di Jacaranda in fiore.
Dopo le foto di rito, quando gli altri se ne sono andati, mi avvicino circospetto al cancello, ricordando le epiche imprese di Indiana Jones e cercando nell’oscurità di intravedere qualcosa…Spunta il monaco-guardiano, egli vive in solitudine nella cappella senza avere contatti col mondo a protezione della reliquia a cui dedica l’intera vita, nominando il successore tra gli altri monaci solo in punto di morte. Nessuno può vedere l’Arca, nemmeno imperatori, o altri governanti. Gli faccio un cenno di saluto e torno sui miei passi pensando a quanto può esserci di reale in questo mito: l’Arca dell’Alleanza è tutt’ora oggetto di studio e di ricerca da parte di storici e archeologi di tutto il mondo, ma come direbbe Roberto Giacobbo, il mistero rimane… Vicino alla cappella si trova un museo in cui è già entrato il resto del gruppo, qui è conservato un tesoro inestimabile fatto di oggetti antichi e preziosi della chiesa e delle dinastie reali Etiopiche.
Sempre nei pressi si trova la nuova cattedrale, con vetrate colorate e dipinti voluta nel 1955 dall’imperatore Hailè Sellassiè e terminata nel 1964. Qui due preti ci mostrano sorreggendolo insieme un grande libro di preghiere riccamente illustrato. E’ quindi la volta del parco degli obelischi o delle steli, che spuntano a pochi passi, tra i quali Abi ci mostra la stele di Axum che fino a qualche anno fa si trovava eretta in piazza Capena a Roma davanti al palazzo della Fao e che nel 2008 è stata riconsegnata ai legittimi proprietari. Poi la stele di re Ezana, che raggiunge i 24m di altezza e un grande obelisco orizzontale, spezzato in diversi tronconi e forse mai eretto per l’eccessivo peso e per l’altezza di 33 metri. E’ considerato, se pur a pezzi, il più grande obelisco del mondo.
Si prosegue con il museo archeologico, che visitiamo prima di qualche acquisto di souvenir in una bancarella all’esterno, c’è pure una donna che vende la famosa mirra. Il pomeriggio è ancora lungo ed Abi ci conduce sulla sommità di una collinetta poco fuori Axum, a visitare le tombe gemelle di re Kaleb e del figlio Gebre Meskal, poi entriamo in una casetta anonima che conserva la pietra di Ezana, una sorta di Stele di Rosetta, che ha permesso di decifrare il sabeo, essendo scritta contemporaneamente anche in greco antico e lingua locale gezz. Osservandola mi torna in mente la stele più famosa, vista qualche anno fa a Londra al British Museum.
Di fianco si trova la cosiddetta piscina della regina di Saba, che nonostante il nome folcloristico e le leggende non è in realtà una piscina ma un serbatoio per la raccolta d’acqua usato da tempo immemorabile, impressionante per le dimensioni ma con alcuni rifacimenti moderni. Concludono le visite della giornata il cimitero Goudit, una vasta necropoli disseminata di rozze steli e il palazzo di Dongour o della regina di Saba, con ogni probabilità appartenuto a un facoltoso axumita, forse un nobile o un alto ufficiale del IV/VI secolo. Gli imponenti resti della costruzione si possono ammirare nella loro estensione di 3000mq da una terrazza panoramica. Più in basso un gruppo di donne ci invita a comprare i tipici piatti colorati della zona, che diventano il soggetto per qualche suggestiva foto nella calda luce del tramonto.
Ancora souvenir in un negozietto che vende tra le altre cose splendide croci copte, zaffiri e ambra, poi archiviamo questa lunga giornata ritornando in hotel per la cena.
19 Febbraio, la mattina presto ci attende il volo per Lalibela, che prendiamo assieme ad un gruppo di anziani e allegri tedeschi. Lalibela è un villaggetto a 2500m di quota, con capanne e qualche albergo, ma è famosa per le sue chiese rupestri che ne fanno il luogo di maggior richiamo religioso di tutta l’Etiopia. Le 11 chiese, alcune alte fino a 15 metri, costituiscono una rappresentazione dei luoghi santi, una “seconda Gerusalemme” voluta dal re Gadla alla fine del XII secolo dopo che i musulmani di Saladino presero la Città Santa. La leggenda vuole che l’intero complesso fosse stato realizzato in una sola notte a opera degli angeli, tanto da valerle il nome di “città degli angeli”. Al nostro arrivo una processione di scolari con divise colorate in verde acqua, viola e blu, ci accoglie all’ingresso della cittadina e poco dopo posiamo i bagagli al nostro Panoramic Hotel, che offre come dice il nome, una bella vista panoramica sui monti circostanti e un’ampia sala in cui è già pronto il pranzo.
Nel pomeriggio procediamo con la visita della chiesa di Biete Medhane Alem. Del gruppo nord-occidentale di chiese, è senz’altro la più impressionante in quanto a dimensioni. Sembra un tempio greco e nonostante la moderna copertura opera dell’UNESCO, emana un fascino indiscutibile.
E’ la più grande chiesa monolitica del mondo con 34 pilastri rettangolari esterni e 38 colonne interne a sostenere il tetto a due spioventi e potrebbe essere la copia di Santa Maria di Sion ad Axum. Tra la chiesa e la roccia circostante, è presente una trincea dove camminano e riposano i pellegrini, mentre altri pregano all’interno della chiesa. Purtroppo la pioggia che inizia a cadere ci impedisce ulteriori visite e ci ritiriamo in hotel, riprenderemo domani.
20 Febbraio, al mattino ci attende un lungo tragitto in pulmino per la visita di Yemrehana Kristos, monastero situato ad’una altezza di 2700m, ad un’ora e mezza da Lalibela e realizzato all’interno di una grotta. Lungo i pendii terrazzati notiamo le capanne cilindriche con tetto di paglia tipiche di questa zona e alcuni bambini si arrampicano sul crinale per salutarci. Il monastero di Yemrehana Kristos è dedicato a uno degli undici re della dinastia Zagwe che governò l’Etiopia dal 1087 al 1127, prima del re Lalibela e che contribuì a radicare il cristianesimo nel paese. E’ considerato santo dalla chiesa Etiope.
Arrivati al villaggio per raggiungere il monastero ci aspetta una salita di circa 20 minuti su un sentiero a gradoni, sotto alberi di olivo selvatico e cipressi con una temperatura fresca, quasi alpina. I bambini del villaggio ci accompagnano fino in cima cercando di venderci piccoli animaletti di legno e lungo il sentiero incontriamo anche molti mendicanti, pellegrini ciechi o senza gambe che chiedono la carità.
La chiesa è un connubio tra natura e architettura e qui si respira una sensazione di pace e armonia.
L’ingresso è coperto da un muro rettilineo di pietra su cui siedono alcuni anziani che si prestano per una foto di gruppo. Da una porta si accede quindi al cortile interno dove è collocato il monastero, sotto una grande grotta naturale. Le pareti sono costruite con una alternanza di travi di legno scuro e di pietra chiara e le finestre sono coperte da grate cruciformi intagliate. Questa chiesa è più antica delle chiese rupestri di Lalibela di quasi un secolo.
L’interno è abbastanza buio e quindi è difficile vedere le decorazioni dei soffitti raffiguranti scene della Bibbia, ma l’attenzione è rivolta ai preti, che indossano per i turisti abiti sfarzosi e tengono in mano la croce.
Nel corso dei secoli molti pellegrini sono venuti in questa chiesa per morire e i loro resti (teschi e mummie) sono sepolti dietro la struttura dove vi è anche la tomba del re santo.
Si scende al villaggio dove alcune donne setacciano il grano, poi sulla strada di ritorno a Lalibela, il nostro autista si improvvisa contadino scendendo dal mezzo e prendendo possesso di aratro e buoi di un sorpreso bracciante. Dopo pranzo ci attendono altre chiese, in compagnia di un solerte addetto alle scarpe, che ci seguirà tutto il giorno aiutandoci a toglierle e facendole trovare pronte di volta in volta alle varie uscite.
Molte chiese, ci dice Abi, sono collegate da stretti passaggi che permettono ai monaci e ai preti che vivono lì di spostarsi facilmente. Questi passaggi posso essere alla luce del sole o sotterranei e proprio quelli sotterranei sono una delle caratteristiche del complesso sacro di Lalibela. Si tratta di tunnel completamente bui in cui non è permessa alcuna forma di illuminazione. I più coraggiosi del nostro gruppo provano allora lo stretto e lungo pertugio che collega la cappella Selassiè (dedicata alla Santissima Trinità) e la tomba di Adamo.
E’ un’esperienza veramente inquietante: bisogna appoggiare la mano al muro e andare avanti nelle tenebre, fino a che la luce, prima fievole e poi sempre più accesa, non segnala che si sta uscendo dal tunnel per trovarsi in un punto diverso del complesso. Questi tunnel, oltre che per spostarsi, hanno una funzione e un significato sacro: rappresentano il percorso dall’inferno al paradiso, la strada che il fedele deve fare per purificarsi e passare dall’oscurità dell’inferno e del peccato alla luce del paradiso e della salvezza divina.
Dopo le chiese di Bet Maryam ( la più antica di Lalibela), Bete Mikael e Bete Golgotha, percorriamo un canalone tra le rocce (il fiume Giordano) che separa il gruppo di chiese dalla più famosa, quella di S.Giorgio, un incredibile monolite rosato a forma di croce scavato per una dozzina di metri nella roccia tufacea. Scendiamo prima al livello del pavimento tramite una scalinata accedendo allo spiazzo che la circonda, poi saliamo camminando attorno al tetto e infine ci spostiamo su una piccola altura per ammirare l’edificio nel suo insieme quando ormai la giornata volge al termine.
Alla sera ho la sorpresa che per overbooking dovrò cambiare hotel, fortunatamente la mia destinazione sarà il bellissimo Mountain View a poca distanza dal precedente, in cui mi rilasserò dalle fatiche dell’intensa giornata.
21 Febbraio, questo bellissimo e impegnativo viaggio è ormai alle tappe conclusive, un nuovo volo ci porta da Lalibela ad Addis Abeba, in cui troviamo il presidente del Burundi e tutta la delegazione diplomatica in visita, appena scesi dalla scaletta dell’aereo. Un nuovo pulmino più spazioso ci raccoglie all’aeroporto ed il tour operator, visti i disagi avuti nella prima parte del viaggio, ci offre il pranzo in un bellissimo hotel del centro con ogni ben di Dio. “Chi vuole un po’ di Berberè?” chiede Alberto. Poi ci attendono le visite pomeridiane della capitale.
Passiamo a fianco del Palazzo delle Nazioni Unite, al Palazzo di Menelik, attraversiamo la rotonda con il monumento ai caduti per mano italiana durante la strage di Addis Abeba (si parla di migliaia di vittime etiopi) e quello che commemora la liberazione dall’occupazione. Tappa successiva il Museo Nazionale famoso per ospitare i resti fossili dell’ominide Lucy, chiamata così in onore della canzone dei Beatles “Lucy in the sky with Diamonds”. Ma c’è anche un altro Australopiteco,Selam, più antico di 120.000 anni rispetto al precedente. Questi ed altri importanti reperti fanno sì che l’Etiopia venga considerata dal mondo scientifico la culla dell’umanità.
Il museo è molto grande e si sviluppa su vari piani che comprendono oltre alla sezione paleoantropologica, quella storica e archeologica, quella etnografica e quella di arte moderna. Abi ci conduce quindi ad un punto panoramico a 2700m, su una collina piena di boschi di eucalipti da cui scendono donne che portano sulle spalle fascine di legna lunghissime, senza apparente sforzo. Da qui la città con 3,7 milioni di abitanti ci appare in tutta la sua estensione.
Ultime soste per acquistare abiti tipici in un affollato mercato e oggetti di artigianato in un negozio buio all’interno di un edificio pericolante con lavori in corso e calcinacci che precipitano ad ogni martellata, poi attendiamo in un albergo di appoggio la cena finale di commiato con balli e canti tipici con scuotimento di spalle, petto e testa da parte dei virtuosi cantanti e ballerini.
Il lungo volo notturno ci riporta a casa dove troviamo la neve e l’inverno che avevamo lasciato due settimane fa. Rimarranno a scaldarci le emozioni, i paesaggi unici dell’Etiopia e i ricordi del viaggio più avventuroso di sempre.
LE FOTO SONO DI: Esther Debitzer, Massimiliano Di Giuseppe, Giammario Marzocchi, Alberto Palazzi, Solisca Pederzoli, Enzo Pincini e Claudia Zama.
LE FOTO ASTRONOMICHE SONO DI: Esther Dembitzer e Alberto Palazzi