di Massimiliano Di Giuseppe
Nuove e imponenti montagne si preparano a fare da sfondo alla pioggia di meteore Orionidi, le stelle cadenti di fine Ottobre originate dalla famosa cometa di Halley, che dopo aver dato spettacolo sul monte Sinai in Egitto nel 2008 e sull’Ararat in Armenia nel 2011, si preparano a sfrecciare in Nepal sopra la catena Himalayana, che diventa quindi meta di un accattivante viaggio organizzato come di consueto in collaborazione con l’agenzia di viaggi Robintur.
Il 15 Ottobre mi incontro col resto dei partecipanti ancora una volta all’aeroporto di Malpensa: le veterane Simona Musiani, Silvana Laffi e Vanna Civolani (con noi l’ultima volta in Australia nel 2012) e i nuovi Bruna Santini, Olivio Righi con la moglie Barbara Reggiani ed Elmo Pronti con la moglie Elsa Arcangeli.
Il comodo volo Emirates fa scalo a Dubai e dopo un’attesa di 5 ore ingannata facendo conoscenza con i nuovi compagni di viaggio e bevendo qualche cappuccino con caramello, ci imbarchiamo per Kathmandu, capitale del Nepal. Cresce in tutti noi l’attesa per questo affascinante paese, già obiettivo di un viaggio due anni fa, poi sfumato all’ultimo a causa del disastroso terremoto che l’ha colpito. Speriamo che la popolazione abbia avuto gli aiuti necessari e i bellissimi templi non siano stati troppo danneggiati…
Dai finestrini dell’aereo abbiamo il primo impatto con la catena dell’Himalaya che compare al tramonto all’orizzonte, l’emozione è forte e cerchiamo di fare qualche foto sperando di vederla più da vicino… ma l’aereo piomba nelle nuvole e nel grigiore, nascondendone la vista mentre si prepara all’atterraggio. Kathmandu ci appare dall’alto in un disordinato agglomerato di abitazioni fitte le une alle altre, atterriamo al piccolo aeroporto e dopo aver ricuperato i bagagli troviamo ad attenderci all’uscita la nostra guida Kabindra detto Kabir assieme ad Apo, l’autista di un piccolo e vetusto pulmino.
Ci vengono subito messe al collo ghirlande arancioni di benvenuto e siamo catapultati nel traffico caotico della città, veramente micidiale, un groviglio di motorini, auto e furgoni più o meno scassati, che abbandoniamo a fatica, arrampicandoci su una strada di montagna che conduce a Nagarkot, piena di buche o meglio voragini che rallentano il nostro mezzo.
Nel frattempo si è fatto buio e il percorso diventa più pericoloso, Kabir ondeggiando sul suo sedile annuncia: “La strada è un po’ brutta…ma non abbiate paura, fra poco siamo arrivati!”
Fra un sobbalzo e l’altro siamo incuriositi dalla gran quantità di luminarie e decorazioni con lampade a olio che addobbano negozi e case. “Siamo nel pieno della festa delle luci!”, ci rivela Kabir sorridendo. “Si chiama Thiar e ogni giorno si festeggia un animale: corvi, cani, vacche, buoi e…i fratelli!”
Ecco il nostro alloggio, The Fort Resort, molto bello, immerso nella vegetazione a 2200 metri di quota, con un ampio terrazzo panoramico proprio di fronte alle nostre camere, peccato che il cielo nuvoloso questa sera non consenta osservazioni astronomiche. Dopo una cena a buffet in cui iniziamo a conoscere la cucina nepalese, un misto di indiana e cinese, ci ritiriamo nelle nostre stanze sperando l’indomani di svegliarci con un bel cielo limpido e lo sfondo delle vette himalayane.
Il 17 Ottobre la mattina si presenta invece di nuovo grigia e nuvolosa, ahimè era l’unico punto del viaggio da cui potevamo vedere l’Everest se pure in lontananza, l’appuntamento con l’Himalaya è perciò rimandato… Abbiamo modo tuttavia di apprezzare l’architettura tradizionale dell’albergo e l’ampio giardino che degrada sulla parete della montagna. Dopo colazione risaliamo così sul pulmino di Apo, che dopo aver attraversato Nagarkot, passando in mezzo a catapecchie, negozietti, motorini, galline e gente che trasporta merci di tutti i tipi, ci porta un po’ più in basso per iniziare un trekking nella foresta. Abbiamo una guida aggiuntiva, un omino con un cappello tipico della gente di montagna, il “topi”, che ci accompagnerà lungo un sentiero che scende sulle pendici dei monti, tra boschi lussureggianti.
Vanna e Bruna, da buone camminatrici, precedono il resto del gruppo, Elsa sfoggia i bastoni da trekking e avanza spedita, mentre Silvana ha un po’ di difficoltà ma resiste stoicamente sorprendendo tutti. E così, oltrepassando guadi, foreste di bambù, pendii terrazzati, con il sottofondo di cori fortissimi di cicale, arriviamo nell’atmosfera rurale e pacifica del villaggio di Dudamukh, sorvolati da alcuni falchi e osservati con curiosità dai bambini, dagli anziani e da donne con le ceste sulle spalle che camminano tra i fiori bianchi delle patate e cespugli con enormi ragni colorati.
Ci salutano con il classico “namastè”, sorridendo, abbassando il capo e congiungendo le mani. Qui, ci dice Kabir, c’è senz’altro una migliore qualità della vita rispetto alle città, ove purtroppo a causa di smog ed inquinamento la vita media è molto bassa. Anche se poveri, gli abitanti del villaggio vivono dignitosamente con il loro bestiame e ciò che offre la terra. Ci fermiamo a riposare vicino ad un albero dei pipistrelli, tra case diroccate, fiori arancioni, farfalle e piante di Marijuana, che Vanna nota presso un’abitazione e che Kabir si affretta a spiegarne l’uso medicinale da parte dei valligiani.
Scendiamo ancora attraversando i villaggi di Nala, con un tempietto e una fontana dove alcune donne lavano i panni e Banepa in cui ci attende il pulmino per condurci alla tappa successiva, Dhulikel, una cittadina a 1400m di quota più grande delle precedenti dove sosteremo questa notte. Consumiamo il pranzo al sacco sull’erba, in un punto panoramico della città prima di posare i bagagli al bell’hotel Himalayan Horizon, con un ampio giardino da cui in teoria è possibile ammirare l’Himalaya all’orizzonte. E’ uscito un po’ di sole ma c’è troppa foschia e non si vedono ancora le montagne, forse domattina all’alba si vedrà qualcosa, promette Kabir mentre ci offre un tè.
Riposiamo un po’ e siamo di nuovo in marcia per il centro storico di Dhulikel, salendo su una collinetta sul lato nord del villaggio fino ad uno spiazzo, dove una scalinata in pietra ed un arco segnano l’entrata al tempio di Bhagwati , una struttura con tre tetti a pagoda su un basamento con mattonelle in ceramica rosa.
Siamo accolti da una piccola anziana raggrinzita addetta a suonare le campane e da alcune bambine che chiedono da dove veniamo. Il tempio è dedicato a Shiva e salendo in cima godiamo di una bella vista sulla città e sulla valle di Kathmandu.
Le case di fango con i tetti di paglia visibili in basso, ci spiega Kabir, sono abitate da famiglie appartenenti alle caste inferiori che vivono ai margini dalla Valle. Anche se la legge proibisce ormai la discriminazione in caste, questo sistema in Nepal è ancora molto forte, così come nella vicina India.
Scendendo nella piazza principale troviamo il Tempio di Narayan e il grazioso Tempio di Harisiddhi,
con splendide incisioni sulle cornici in legno delle porte e delle finestre. Di fronte alle case e nei cortili, alcune donne setacciano il grano e il riso, con movimenti precisi e misurati che si tramandano dalla notte dei tempi. Contrastano con tutto ciò gli impressionanti grovigli di filo elettrico che troviamo un po’ ovunque e che pendono pericolosamente dai pali e dalle pareti delle abitazioni e qualche rumorosissimo triciclo/motocar che trasporta qualsiasi cosa…
Di ritorno in hotel ceniamo in compagnia di un gruppo di chiassosi cinesi, con un’ottima zuppa di legumi e altre pietanze gustose, poi usciamo in cortile alla ricerca di qualche stella e costellazione: soffia un po’ di vento e il cielo si sta aprendo. Riesco a mostrare ai compagni di viaggio con il laser il cielo autunnale, con Vega e il Triangolo estivo che si stanno abbassando verso ovest e Fomalauth del Pesce Australe e la Balena ben alte sull’orizzonte dalla parte opposta.
Da una nuvola spuntano le Pleiadi, le 7 sorelle, che formano il ciuffo ella coda del Toro, ma poco dopo le costellazioni si coprono di nuovo, più di così stasera non si può fare… speriamo che il vento continui a fare il suo dovere liberando il cielo per domattina. Ci ritiriamo così in un salottino dell’hotel continuando a disquisire di scienza e di astronomia fino a tardi.
Il 18 Ottobre la sveglia suona alle 5, mi affaccio sul balcone della camera, sposto la tenda e osservo una Luna a barchetta accanto a Venere annunciare un’alba finalmente serena, che rivela all’orizzonte i sospirati monti dell’Himalaya “la dimora delle nevi”, che spuntano dalle ultime brume in lenta evaporazione. Sorge il sole illuminando le vette che diventano rosate e bellissime, qualcuno del gruppo è sceso in giardino per fotografare l’imponente arco di montagne, ma anche dal balcone si vedono benissimo.
Ci si trova tutti a colazione, poi Kabir ci accompagna in giardino indicando i principali picchi: il Langtang (7200m), il Gaurishanker (7124m), il Phuribichyachu (6600m ) e il Lhotse (8516m), per citarne alcuni. Un Buddha dorato di fianco a noi sembra pure lui assorto ad ammirare questa meraviglia, che invoglia a rimanere in contemplazione. La giornata limpida e la temperatura perfetta ci fanno dimenticare perfino l’autunno di casa nostra e le preoccupazioni quotidiane…
Ma dobbiamo ripartire e a malincuore seguiamo Kabir sul pulmino che passa sotto una grande statua del dio Shiva, allontanandosi da Dhulikhel e percorrendo una strada tortuosa fino all’arrivo a Bhaktapur, la prima capitale del Nepal, che ci accoglie col solito traffico bestiale e clacson dal barrito di elefante. Entriamo nel tempio induista di Wakupati Narayan e notiamo subito il fervore religioso di numerosi fedeli, che lasciano offerte (soprattutto cibo) di fronte alle statue degli dei o agli altari.
Kabir ci spiega che in Nepal la religione induista rappresenta la parte più grande della popolazione. Ci sono migliaia di dei e tutti sono venerati, i tre più importanti sono Brahma il creatore, Vishnu il conservatore della vita e del mondo e Shiva, considerato come potenza trasformatrice. Bisogna inoltre ricordare Ganesh con la sua testa da elefante, Hanuman la scimmia, Nandi il toro, Durga, Parvati, Garuda e Kalì la dea della guerra.
Ma anche i buddisti sono molto rispettati nella società nepalese benchè contino solo il 10% della popolazione, poi ci sono i musulmani con il 4% e ancora più bassa è la percentuale dei cristiani. Le diverse religioni vivono in perfetta armonia e il Nepal è uno dei pochi paesi al mondo a non aver mai conosciuto guerre di religione.
Mentre osserviamo e fotografiamo nel cortile del tempio le statue di ottone e pietra del dio Garuda su 3 alti pilastri, un tizio ci si avvicina sfregando il bordo esterno di una ciotola di metallo con movimento circolare, producendo un suono acuto caratteristico, quasi le armoniche di un diapason. E’ la “ciotola sonante”, un souvenir molto diffuso in Nepal, ci spiega Kabir, ma per ora, solo per ora, non ci lasciamo tentare…
Passiamo tra bandierine di preghiera, donne che setacciano e asciugano al sole riso basmati e granoturco e altre all’ombra di porticati che tessono con arcolai in legno, poi usciamo in strada notando un mix di gente vestita di stracci ed altra con sgargianti abiti tradizionali. E poi carne sui banconi dei macellai, tagliata con l’accetta e infestata dalle mosche vicino a lussuosi negozi.
Per la prima volta dall’inizio di questo viaggio vediamo chiaramente l’effetto del terremoto del 25 Aprile 2015, molte case e palazzi sono crollati e attorno alle macerie assistiamo ad un lento e poco convinto lavoro di ripristino: operai con carriole piene di mattoni scalcinati si aggirano tra i vicoli, altri tentano di puntellare con travi in legno quelli più pericolanti.
Approdiamo ad una grande piazza in cui sorge il tempio a pagoda di Dattatreya, in legno di tek: questo tempio edificato nel 1427, è dedicato a Dattatreya, una divinità che fonde le caratteristiche di Brahma, Vishnu e Shiva. I tre piani del tempio poggiano su una base in mattoni con scene erotiche, mentre sono visibili all’ingresso una statua di Garuda e una coppia di lottatori Malla.
Alcuni cani randagi passeggiano nella piazza addobbati con ghirlande e le tipiche decorazioni rosse sulla fronte “tilak”, oggi è la loro festa e in questa occasione tutti i cani vengono venerati e rifocillati come personalità importanti. Seguiamo Kabir tra i vicoli che diventano sempre più affollati fino alla gigantesca Taumadhi Tole in cui troneggia il tempio a pagoda di 5 piani di Nyatapola, alto 33m, con una scala di accesso fiancheggiata da una serie di sculture che raffigurano i guardiani protettori: 2 lottatori, 2 elefanti, 2 leoni e 2 grifoni.
Tutto attorno diversi templi, alcuni integri come quello di Bhairava Nath, altri pericolanti o con i tetti crollati e una folla oceanica che si accalca al mercato della frutta, del pesce e delle spezie allestito proprio al centro della piazza, non possono mancare naturalmente orde di motorini strombazzanti in gara coi suoni striduli dei pifferi dei venditori ambulanti. Saliamo gli alti gradini della scalinata di Nyatapola, tempio è dedicato a Siddhi Lakshmi, una delle incarnazioni della dea Durga Parvati e da lassù lo sguardo si perde tra i mille colori delle mercanzie e degli abiti della gente. Sopra di noi un cielo blu limpidissimo.
Accanto alla porta del tempio sono scolpiti nel legno otto simboli benauguranti del buddismo, esempio della stretta commistione tra le due principali religioni del Nepal.
Ridiscesi nella piazza, passiamo di fianco al Tempio di Shiva Kedarnath per addentrarci nel quartiere dei Vasai, in cui sembra di tornare indietro nel tempo, con una piazza interamente occupata da vasi di argilla messi ad essiccare al sole e circondata da botteghe con ceramisti che lavorano le proprie opere con torni a pedale. E’ il momento di spostarci a Patan (conosciuta anche come Lalitpur o la città della bellezza), la più antica tra le città reali della Valle di Kathmandu, sede del Palazzo Reale e centro sia dell’induismo che del buddismo, con 136 bahal o cortili e 55 grandi templi.
La gran parte di queste strutture si trovano nella bellissima Durbare Square, patrimonio dell’umanità dell’Unesco, scelta dal regista Bernardo Bertolucci per alcune sequenze del celebre “Piccolo Buddha”, oggi purtroppo gravemente danneggiata dal terremoto.
Ci aggiriamo tra gli edifici cercando di scrutarne ogni minimo particolare, più che una piazza è un autentico museo a cielo aperto. Decine di templi si susseguono nello spazio di pochi metri. Hanno resistito bene al sisma la statua del re Bhupatindra Malla appollaiato su di una colonna, la Porta d’oro, sormontata da Kali e Garuda, il Palazzo dalle 55 finestre, residenza reale fino al 1769 e oggi adibito a museo, con le finestre in legno superbamente lavorate e la fontana di Naga Pokhari, custodita da alcuni grossi cobra di pietra. Invece è andata completamente distrutta la torre di Dahrahara di 62m e parte del tempio di Pashupatinath.
Il sole a picco sulle nostre teste ci dice che forse è meglio fermarsi a mangiare qualcosa dopo l’interessantissima ma anche impegnativa mattinata e Kabir ha già predisposto tutto, pranzeremo direttamente nei giardini del palazzo reale! Ci sediamo all’ombra di un pergolato e ci rilassiamo a dovere gustando finora i migliori piatti della nostra permanenza in Nepal.
Con la giusta energia visitiamo sempre all’interno del complesso del palazzo reale, il Patan Museum in cui sono custoditi antichi manoscritti tantrici, statue in bronzo fuse e lavori in rame dorato. Di seguito il tempio di Bhimsen, con finestre d’oro interconnesse e quello di Hyrania Varna Mahavihar, un piccolo tempio buddista estremamente ricco e sfarzoso con file di ruote della preghiera. E’ in gran parte ricoperto d’oro ed è molto frequentato da turisti, ma ancora di più dai credenti che vengono a pregare e fare offerte. Emana davvero grande fascino e misticismo.
Seguiamo un bambino, un piccolo monaco, che esce all’esterno del tempio per giocare con l’acqua di un pozzo vicino ad un albero della canfora, poco distante un curioso negozietto con la scritta “Tibetan singing bowl center” in cui il simpatico proprietario ci invita a entrare. Il negozio è pieno di campane tibetane, più o meno grandi, come quella che abbiamo visto stamattina. Ci fa accomodare e ci spiega che le campane da canto sono ampiamente utilizzate in Nepal come ausilio alla meditazione nello yoga, nella musicoterapia, nella guarigione attraverso le vibrazioni armoniche del suono e nei servizi religiosi.
Si tratta di un fenomeno scientificamente provato e lui stesso ha fatto dimostrazioni pratiche in giro per il mondo, perfino in Italia alla trasmissione Superquark con Piero Angela! Mentre parla prende una delle campane più grandi piena d’acqua strofina il bordo con l’apposito utensile e magicamente l’acqua inizia a “bollire” a causa delle vibrazioni sonore. Le stesse vibrazioni ottenute battendo con la mano su una ciotola più piccola producono il rilassante e antico suono dell’”Om”.
A questo punto il nostro gruppo viene invitato a provare gli effetti curativi delle campane tibetane. Qualcuno soffre di mal di schiena? Mal di testa? Alle ginocchia? Non ci vuole molto a convincere Simona ad indossare come fosse un elmetto una campana sapientemente scelta dal nostro simpatico avventore. Qualche colpo sul metallo dorato e il gioco è fatto! Si passa poi a Elmo per il mal di schiena e a Barbara ancora una volta per il mal di testa. Tutti quanti alla fine saranno molto soddisfatti dei risultati acquistando dopo una breve trattativa sul prezzo il miracoloso oggetto.
La giornata si conclude quindi col nostro arrivo a Kathmandu, al lussuoso Hotel Himalaya in cui effettuiamo la cena.
19 Ottobre, dopo colazione Kathmandu ci accoglie nel caos completo di un super ingorgo nei pressi dello Stupa buddista di Swayambhunath, detto il tempio delle scimmie, nostra prima destinazione della giornata. D’altra parte, ci spiega Kabir, il Nepal è uno degli stati asiatici più popolati, con 30 milioni di persone concentrate in uno stretto territorio per lo più occupato dalle montagne. Va da sé che nelle città si arrivi ad un esagerato numero di abitanti, la capitale, pur non essendo troppo estesa, ne ospita da sola 1 milione. Se poi ci si mettono le condizioni precarie delle strade, peggiorate ulteriormente dal sisma e le scarse regole stradali si arriva alla situazione sotto i nostri occhi.
Bandiere della preghiera che si dipartono da due stupa bianchi con gli occhi di Buddha e tante scimmie presso una fontana circolare, ci salutano all’ingresso del tempio. La gente getta monetine cercando di centrare una ciotola benaugurante e Barbara è l’unica del nostro gruppo a riuscire nell’impresa.
Saliamo in cima alla collina lungo una scalinata con 365 gradini, attirati da una musica celestiale che ripete il mantra tibetano: “Om mane padme Hum”, dal sanscrito “O gioiello del Loto” e qui in un’atmosfera veramente mistica ci appare il bellissimo stupa principale, circondato da pinnacoli, ruote della preghiera, candele votive, offerte, piccioni svolazzanti, scimmie sacre, maschere rituali, edicole dorate e campanellini che tintinnano nel cielo limpidissimo.
Kabir inizia a descriverci la complessa simbologia del tempio: In cima alla scalinata si erge un gigantesco vajra dorato che simboleggia la folgore celeste, ovvero il potere dell’illuminazione che distrugge l’ignoranza e due leoni a guardia dell’ingresso.
Seguiamo Kabir e come i pellegrini giriamo in senso orario le ruote della preghiera alla base dello stupa: esso risale al V sec d.C, e consiste in una grande cupola bianca emisferica (il globo terrestre) sopra la quale è situata una struttura cubica dorata su cui sono dipinti gli occhi di Buddha, che guardano nei 4 punti cardinali.
Al centro degli occhi c’è un disegno, un ghirigoro, che molti pensano sia un naso ed invece è il simbolo nepalese chiamato “ek” che simboleggia l’unità, sopra vediamo il terzo occhio del Buddha, simbolo del risveglio spirituale e saggezza.
13 anelli dorati su una torre conica sono invece i 13 gradi della conoscenza e rappresentano la scala verso il nirvana, simboleggiato a sua volta da un parasole.
In un’atmosfera mistica pervasa da un penetrante odore di incenso e di candele di burro, effettuiamo alcune circumambulazioni dello stupa in senso orario insieme alla processione di fedeli e osserviamo alla base dello stesso, 5 porte-tempietti dorate con all’interno statue delle divinità che rappresentano le cinque qualità della saggezza buddista.
E’ veramente un luogo che diffonde pace e armonia, tutto il contrario della sottostante e caotica Kathmandu che vediamo dall’alto del terrazzo mentre si posa per una foto di gruppo.
Alcuni monaci buddisiti in arancione accompagnano la nostra discesa al pullman, ci salutano sorridendo e ci lasciano alla nostra quotidiana lotta con il traffico. Si torna alla dura realtà, ai sorpassi, ai clacson, alle buche, fino alla prossima tappa della giornata, il palazzo di Kumari Bahal ove risiede la dea bambina Trishna Shakya Kumari Devi.
Kabir ci rivela che La Kumari Devi è considerata presso gli hindu nepalesi una divinità vivente. Si tratta di una bambina (Kumari sta infatti per vergine) considerata l’incarnazione della dea Taleju Bhawani. Essa viene scelta esclusivamente tra le bambine della casta familiare Newar Shakya degli argentieri e orafi.
Entriamo nel cortile del palazzo, alcune persone sono in attesa che la dea bambina si mostri affacciandosi ad una delle finestre. Ci accomodiamo anche noi.
La scelta della bambina, prosegue Kabir, avviene nella tenerissima età che va dallo svezzamento alla pubertà e deve rispondere ad una serie di requisiti tra i quali la bellezza, l’esclusione di qualsiasi difetto fisico o cicatrice e la mancanza di perdita di sangue. La bimba, inoltre, non deve piangere, essere irrequieta o muoversi nel corso delle cerimonie in quanto questi eventuali suoi gesti potrebbero essere fonte di disgrazie per l’intero paese.
Per valutare la sua forza di carattere vi è un’altra terribile prova. Durante la festa indiana di Dashain, o “notte nera”, le giovani candidate devono dormire tra le teste di capre e 108 bufali sacrificati con uomini mascherati da demoni che cercano di spaventarle. La bambina che resiste è sicuramente la Dea!
Una volta selezionata, la bambina viene trasferita al palazzo Kumari Bahal assieme alla sua famiglia e fa una sua apparizione cerimoniale in pubblico soltanto in pochissime occasioni all’anno. Quando la Kumari si ammala gravemente, si ferisce, ha le prime mestruazioni, è segno che la Dea Taleju ha abbandonato il corpo mortale della bambina. L’attuale Kumari si chiama Yunika Bajracharya e ha 3 anni.
Qualche movimento ai piani superiori del palazzo interrompe le spiegazioni. “Siamo fortunati!” dice Kabir sorridendo, “ la Dea bambina sta per affacciarsi, mi raccomando niente foto, i guardiani sono severissimi e possono requisire la macchina fotografica!”
Dopo qualche minuto di attesa la bambina vestita di rosso, pesantemente truccata e con sguardo solenne si concede agli occhi curiosi dei turisti e dei fedeli… parte un applauso spontaneo dalla platea. Alcuni però non resistono alla tentazione di una foto che provoca immediatamente un severo rimprovero del guardiano, la piccola viene spostata e la finestra chiusa…
“L’avevo detto!” scuote la testa Kabir mentre usciamo nella piazza principale di Kathmandu, la Durbar Square.
Il terremoto ha provocato qui molti danni, molti templi ed edifici storici sono crollati, altri sono in restauro, puntellati o ingabbiati in impalcature, pochi sono quelli sopravvissuti integri. Facendoci strada a fatica nella folla di persone variopinte pigiate le une alle altre, sostiamo al Tempio di Shiva e Parvati e alla statua di Kala Bhairab raffigurante Shiva nella sua manifestazione distruttiva. Qui tra venditori ambulanti di bandierine del Nepal, dalla caratteristica forma triangolare e donne curatissime nel trucco e negli abiti, molti poveracci chiedono l’elemosina stesi a terra, ci sono anche alcuni santoni in giallo (Sadhu), seduti a gambe incrociate all’ombra di un albero di Ficus dalle enormi radici ricurve.
Siamo ora di fronte al vecchio Palazzo Reale, un gigantesco complesso di templi, giardini e pagode con finestre in legno riccamente intagliate, conosciuto anche con il nome di Hanuman Dhoka, nome che si deve alla statua di Hanuman, ovvero la scimmia sacra, situata all’ingresso del Palazzo. Sbirciamo l’interno dei cortili, controllati dalle serissime guardie, poi c’è il tempo per qualche foto al tempio di Jagannath, uno dei più antichi e a quello di Taleju, che con i suoi 35 metri di altezza in stile tipico piramidale newari, domina l’intera piazza.
Un volo di piccioni (saranno centinaia), ruota attorno ai tetti rossi delle pagode mentre siamo assorti a filmare e fotografare e Kabir esclama: “Questa è la Piazza S.Marco del Nepal!”. Come dargli torto… Le nostre visite della mattina terminano infine con il bianco e neoclassico Gaddi Baithak, del 1908, un palazzo fortemente influenzato dallo stile europeo, purtroppo pesantemente danneggiato dal terremoto. Una sosta pranzo al ristorante UFO, in cui assaggiamo la birra nepalese Everest, ci rifocilla prima di riprendere le visite.
La giornata è infatti ancora lunga e torniamo a camminare tra le vie di Kathmandu. Autobus stracolmi sollevano nuvole di polvere dalla strada sterrata che si mescolano allo smog degli scappamenti. Molti nepalesi indossano una mascherina che tuttavia, ci vien da pensare, non li proteggerà a sufficienza…
Ma ecco un altro momento mistico far da contrasto alle tremende visioni di questa città dai mille volti: da un vicolo, sbuchiamo improvvisamente di fronte allo Stupa di Boudhanath, chiamato da Kabir affettuosamente “Stupone”, un’enorme cupola bianca venerata dai buddisti per lo più tibetani qui rifugiati a partire dal 1949 e riconosciuta anche come il più sacro tempio buddista al di fuori del Tibet.
Risalente al 500 d.C. è alto 36 metri ed è costruito su terrazze concentriche, lungo il suo perimetro ci sono 108 statue dell’Amitabha Buddha, 147 nicchie con all’interno di ognuna 5 mulini delle preghiere ed è dal 1979 patrimonio dell’Unesco. Ha fortunatamente resistito molto bene al terremoto. Seguiamo Kabir nel movimento rotatorio, rigorosamente orario attorno allo Stupa, assieme ad una moltitudine di fedeli, monaci in abito cremisi, poveri, gente che prega strisciando sul pavimento o sciorinando i rosari. E poi musiche e cantilene ripetute in continuazione. Attorno ci sono molte case colorate di rifugiati tibetani, botteghe di artigiani, negozi, punti di ristoro ed un centro dove vengono creati i mandala, è proprio lì che Kabir sta entrando…
Nel “Boudha stupa Thanka Centre vengono realizzati dipinti (i cosiddetti Thangka), su cotone seta o carta, raffiguranti una divinità oppure un mandala, simbolo geometrico spirituale e rituale presente sia nell’induismo che nel buddismo, che rappresenta l’universo. Il giovane titolare ne srotola alcuni sul bancone, tutti diligentemente dipinti a mano, con particolari finissimi, riproducibili grazie a pennellini fatti con peli di gatto! Ce ne sono di veramente belli per cui si mette mano al portafoglio per gli inevitabili acquisti e souvenir.
Subito dopo entriamo scalzi in un bel tempio alla base dello “stupone” in cui è esposta una gigantografia del Dalai Lama accanto a un Buddha dorato, poi saliamo in cima al terrazzo panoramico circolare. Dal “parasole” dello Stupa partono file e file di bandierine votive di diversi colori, ogni colore simboleggia un elemento fondamentale: il blu simboleggia il cielo, il bianco l’aria e il vento, il rosso simboleggia il fuoco, il verde l’acqua ed il giallo la terra.
Ci sentiamo ogni tanto chiamare per nome: “Simona! Elmo!” La gente indica le nostre magliette, gentilmente offerte dal tour operator Earthen experience, che le ha realizzate scrivendo sulla schiena i nostri nomi in caratteri nepalesi. E’ inevitabile ma anche simpatico che attirino l’attenzione. E’ il momento per un’altra suggestiva foto di gruppo con lo sfondo dello Stupa e del cielo blu.
Ma non è ancora finita, poiché ci manca l’ultima visita, forse la più intensa della giornata, un luogo in cui non tutti decidono di scendere: il tempio induista di Pashupatinath, famoso per le cremazioni dei defunti…
Parcheggiato il pulmino, passiamo di fianco ad alcune bancarelle che vendono polvere colorata, spezie e souvenir, prima di percorrere il viale che conduce al tempio. Ci appare al tramonto il fiume Bagmati dalle cui sponde in controluce salgono i fumi delle pire funerarie. Una visione piuttosto toccante che ci proietta in maniera molto cruda nella dimensione e nella cultura del popolo nepalese. Avanziamo quasi in trance verso il tempio, benedetti da alcuni santoni che contribuiscono all’aura mistica del luogo. Kabir ci spiega che gli induisti credono che solo mediante un corretto rito di cremazione al tempio, la loro anima potrà incarnarsi nuovamente…
I corpi, prima di essere cremati, vengono avvolti in sudari arancioni e poi adagiati dopo svariati riti sui Ghat, le pire; se muore il padre sarà il figlio maggiore ad appiccare il fuoco, per la madre invece il figlio minore e al termine della cerimonia le ceneri verranno disperse nel fiume. Siamo ormai vicinissimi al tempio con un bel tetto a pagoda, ma la nostra attenzione è attirata da un mix di odori acri e pungenti, il vento purtroppo ha cambiato direzione ed in breve siamo avvolti dai fumi delle pire.
Urge una veloce ritirata, per alcuni infatti un senso di nausea è inevitabile…
E’ stata un’esperienza decisamente forte, ma ora è meglio rilassarsi in hotel visto che domani ci attende una nuova avventura: l’impegnativo trasferimento al Royal Chitwan National Park. La tigre ci aspetta!
Nell’immaginario collettivo il Nepal è un paese di alte quote e cime invalicabili, ma in realtà esiste anche un Nepal meno conosciuto fatto di giungle, tigri, coccodrilli e clima caldo umido è lì che trascorreremo i prossimi 2 giorni. Ma per farlo dovremo percorrere i 170km della Narayanghat Mugling Highway che separano Kathmandu dal Chitwan, sembrano pochi ma le condizioni delle strade sono orribili. Se non ci sono contrattempi particolari, dice Kabir, ci metteremo 7 ore!
Con queste premesse il 20 Ottobre, di buon mattino, prendiamo posto sul pullman, mentre Kabir e il giovane assistente figlio di Apo ci porgono le consuete bottigliette d’acqua. Si parte! Abbandoniamo una Kathmandu ancora sonnolenta e con un traffico quasi normale, scendendo rapidamente di quota lungo una strada che costeggia boschi da cui spuntano le cime dell’Himalaya. La strada è ancora buona ma fra poco ci avverte Kabir, inizierà il tratto più temibile.
Ci infiliamo in alcuni banchi di nebbia, poi il percorso peggiora con diversi guadi, lavori in corso e fornaci per la produzione di mattoni, d’ora in avanti sarà sempre peggio…L’asfalto termina improvvisamente e per 40km andiamo a passo d’uomo, squassati dalle buche di una strada infernale attraversata da ogni tipo di mezzo, jeep, autobus vecchi e nuovi, trattori, scooter, biciclette.
E tutti quanti ci superano! E’ raro che infatti il nostro antico pulmino riesca a sorpassare qualcuno e quando lo fa tratteniamo il respiro, meravigliandoci ogni volta di aver evitato un frontale. Ma qui pare che gli autisti abbiano un codice segreto fatto di colpi di clacson ben studiati…
E’ un viaggio infinito, si costeggia un fiume lungo la strada polverosa che scende con tornanti verso il fondo valle. La polvere sollevata dal continuo andirivieni si deposita sulle case dei villaggi aggrappati al bordo del dirupo, sui negozi, sulle persone, sulle palme, coprendo tutto di bianco.
Altri incroci pericolosissimi con camion che starebbero bene in un museo, poi ci fermiamo un attimo a sgranchirci le gambe di fianco ad alcune cascatelle che scendono dalla parete a picco.
E’ l’occasione di un break anche per il nostro autista che si sciacqua il volto nel rigagnolo alla base della cascata. Ormai il peggio sembra passato, il villaggio di Sauraha e alcune piantagioni di banane ci segnalano che il nostro lodge è vicino e finalmente quando sono le 14.00, esattamente 7 ore dopo la nostra partenza, siamo al Tiger Land Jungle Resort, un vero paradiso nella giungla, in cui siamo accolti con un rinfrancante cocktail di benvenuto.
Anche il pranzo a buffet è pronto e ci sediamo a tavola prima di prendere possesso dei nostri bungalows, curati e ben integrati nell’ambiente, in camera c’è pure qualche Geco che osserva curioso. Qualche momento di relax, poi Kabir ci da appuntamento per il primo impatto con il Royal Chitwan National Park. Con lui una guida del parco che ci accompagnerà per una passeggiata nella giungla. Appena fuori dal Lodge, rumori di passi pesanti ci segnalano elefanti in arrivo con turisti a bordo, un’escursione che faremo anche noi domattina all’alba! Osserviamo incuriositi le grandi ceste sul dorso degli animali da cui ci salutano alcuni tedeschi e ci scansiamo per far passare i pachidermi lungo il sentiero.
Il parco di Chitwan, istituito nel 1973, prima riserva di caccia reale, si estende per 900 kmq e ospita almeno 43 specie di mammiferi tra cui rinoceronti indiani, orsi dal collare, iene, cani selvatici, leopardi e tigri del Bengala, le più difficili da avvistare. E poi tantissime specie di uccelli, rettili tra cui il gaviale del Gange e il pitone, nonché una flora estremamente varia.
Avvistiamo un cervo Chital che zompetta nell’erba e un lungo millepiedi, poi il sentiero si addentra nella giungla allontanandosi dalla civiltà. La sensazione è quella di non essere nel nostro habitat e di conseguenza vulnerabili, ci guardiamo attorno circospetti sperando di non incrociare qualche predatore e in silenzio ascoltiamo la guida (che come arma di difesa ha solo un bastone di legno…) mostrarci alcune piante. Ad esempio la mela del rinoceronte, il Mantara (rimedio per le punture di insetti), e la “mimosa pudica” con le foglie che si chiudono al tatto.
Continuiamo a camminare, l’erba diventa alta e una sanguisuga si attacca al dito della guida, probabilmente anche noi ne avremo qualcuna aggrappata, ma è meglio proseguire, il percorso è ancora lungo e il sole sta calando… Altri cervi si abbeverano al fiume con Ibis e aironi in un paesaggio bellissimo e dal fascino ancestrale che mi ricorda i fumetti di Luc Orient che leggevo da piccolo. In lontananza, sopra gli alberi si vede anche il monte Manaslu (8156m) e qualche altro picco himalayano.
Scendiamo vicino al fiume e lo costeggiamo, nel fango sono rimaste impresse diverse orme di animali, la guida e Kabir si abbassano per vedere meglio: si tratta di un leopardo che segue un branco di cervi. E’ passato di qui non molto tempo fa… Caspita! C’è anche un rinoceronte sulla riva opposta del fiume, si mimetizza con il grigio dell’ambiente e ci vuole il binocolo per scorgerlo meglio.
Il sole tramonta tra le anse del fiume creando magnifici giochi di luce e colori. All’imbrunire siamo ancora sul sentiero e lontani dal lodge, occorre affrettare il passo, non è prudente passeggiare di notte nella giungla! La giornata è stata pesante ed alcuni accusano la fatica, ma dobbiamo stringere i denti e proseguire, le nostre guide aiutano e sorreggono i più bisognosi. Si avanza nella sabbia mista a pietre e finalmente le luci del lodge ci dicono che siamo arrivati, ce l’abbiamo fatta! Ora non resta che togliere le sanguisughe attaccate tenacemente ai pantaloni e alle dita dei piedi di chi ha i sandali e poi via a cena!
Ricuperiamo le forze con una carne molto saporita di montone e pollo, accompagnata da un pane nepalese simile alla piadina.
Ma la giornata non è ancora terminata, sull’ampio prato di fronte al ristorante sono state posizionate alcune sedie e a breve qui si esibirà un balletto tradizionale. Prendiamo posto insieme ad altri ospiti del lodge e osserviamo e fotografiamo le brave ballerine che coinvolgono anche alcuni del gruppo in questo spettacolo folkloristico.
Al termine dell’esibizione noto che le nuvole che durante la cena minacciavano pioggia, si sono diradate e un bel cielo stellato splende sopra di noi. Non c’è tempo da perdere, con la collaborazione di Kabir faccio spegnere le luci del lodge per tentare l’osservazione delle Orionidi. Anche se il picco è previsto l’indomani, già stasera non dovrebbero deludere. C’è un po’ di foschia (siamo a 200m di quota rispetto ai 1400 di Kathmandu) ma la zona è molto buia e si riconoscono bene le costellazioni.
Invito il nostro gruppo ad una nuova e più approfondita lezione con il laser verde, ma solo i più tenaci rimangono sugli sdrai a contemplare la volta celeste. Vanna lancia un grido: “Una stella cadente!” L’ho vista anch’io, controllo la traiettoria, viene da Est, è proprio una Orionide, il radiante cioè si trova nella costellazione di Orione che sta sorgendo ad oriente dietro il Manaslu. Poco dopo se ne vedono altre due, corrono sui picchi dell’Himalaya svanendo in un istante sopra di noi.
Penso al telescopio Dobson ancora in valigia, purtroppo il clima finora poco favorevole e la permanenza nella capitale piena di luci non mi ha permesso ancora di utilizzarlo, speriamo per le prossime sere… Intanto qualche altra Orionide brillante si fa strada tra Cassiopea e Andromeda e sembrerebbe preludere ad un bello show, ma le nuvole dispettose tornano e decidono di porre fine alla breve serata astronomica. Pazienza ci riproveremo domani.
21 Ottobre, ci svegliamo molto presto per l’escursione nella giungla a dorso di elefante, fa caldo e sta albeggiando in un cielo grigio e afoso. Veniamo accompagnati all’inizio del sentiero di ieri e invitati a salire su una piattaforma per essere all’altezza giusta della schiena dell’animale. Ci dividiamo in tre gruppi calandoci nella cesta, seduti con le gambe a penzoloni, io sono con Elsa, Elmo, Bruna, la guida del lodge oltre naturalmente al pilota ( il mahout), già seduto di fronte a noi a cavallo della possente testa.
Si parte! Il mahout dà la direzione spingendo con un piede o con l’altro dietro le orecchie dell’animale che caracollando in fila assieme ad altri elefanti avanza tra gli arbusti e la riva sabbiosa del fiume. E’ la prima volta che faccio un safari a dorso di elefante e devo dire che è un’esperienza piuttosto suggestiva, sembra di essere nel “Libro della Giungla” o in “Sandokan” durante la caccia alla tigre! Sicuramente è il sistema meno invasivo per effettuare un safari, si è avvolti dal silenzio e gli altri animali non si spaventano per la presenza di loro simili.
Mentre il nostro elefante si abbevera, la guida ci spiega che è una femmina di 40 anni e che le femmine vengono preferite ai maschi per le attività con i turisti perché decisamente più docili. Ma ecco tra i cespugli comparire improvvisamente due rinoceronti asiatici, quelli con un corno solo! Sono animali molto timidi ma la nostra presenza pare non disturbarli, risulta però difficile fotografare o filmare con l’elefante in movimento: troppi scuotimenti e occorre tenersi aggrappati alla ringhiera della cesta.
Ci affiancano gli elefanti col resto del nostro gruppo e noto che Olivio se la cava egregiamente con la sua attrezzatura fotografica professionale, scatta a ripetizione in perfetto equilibrio ottenendo splendide immagini. Lasciamo questi animali purtroppo a rischio di estinzione ed entriamo nella giungla, ad ogni passo dell’elefante ci sono cortecce che scricchiolano e piante che vengono strappate con la proboscide. Occorre anche fare attenzione ai rami che scattano indietro a mo’ di frusta al nostro passaggio.
Dopo 2 ore di esplorazione il safari giunge al termine senza aver purtroppo scovato tigri o altri animali rari, sapevamo che occorreva molta fortuna! I soliti branchi di cervi Chital e un picchio concludono un’esperienza che ci ha dato comunque una percezione unica della giungla, si ritorna alla piattaforma e salutiamo la nostra elefantessa che a sua volta alza la proboscide in segno di saluto.
Torniamo al lodge per la colazione e per un po’ di riposo, ne approfitto anche per farmi dare da Kabir un rimedio nepalese contro un raffreddamento di cui sento i primi sintomi, una tisana calda con miele arancio e zenzero. L’effetto è praticamente immediato e affronto con rinnovato benessere il successivo giro a piedi in cui è previsto per chi lo desidera, addirittura il bagno con l’elefante nel fiume!
Attraversiamo un boschetto vicino al fiume pieno di alberi con spuntoni nella corteccia, un efficace metodo della natura per dissuadere i pachidermi dallo strisciare contro i tronchi e abbatterli. Ci portano l’elefante prescelto, anche questa una femmina, di nome Kali e prima del bagno viene fatto un briefing in cui ci raccontano tutto quello che c’è da sapere sugli elefanti indiani.
Per esempio rispetto a quelli africani sono più piccoli e più piccole sono anche le orecchie che diventano frastagliate ai bordi e maculate con l’avanzare dell’età. Hanno 32000 muscoli nella proboscide che usano tra le altre cose per afferrare il cibo. Come dimostrazione, ci danno un pacchetto di foglie con riso e zucchero e alcune banane, uno spuntino che Kali ci prende dalle mani con grande abilità. Arriva quindi il momento del bagno e ci avviciniamo al fiume in cui si trova già qualche bufalo con i relativi aironi guardabuoi sulla schiena.
Sulle rive sono visibili segni di esondazioni, le tracce del disastroso alluvione che ha colpito in Agosto il parco, causando morti e distruzione. Kabir ci racconta che disastri del genere possono purtroppo capitare durante la stagione delle piogge… “Quindi chi vuol fare il bagno?” chiede la nostra guida cambiando discorso. Ci guardiamo dubbiosi e alla fine gli unici che si lasciano tentare dall’esperienza sono Elmo, Elsa, Silvana e Simona.
L’elefante viene fatto entrare in acqua e i nostri coraggiosi compagni si avvicinano alla riva anche se un po’ titubanti. Ora l’elefante dovrebbe piegarsi sulle gambe, adagiarsi nel fiume e spruzzare l’acqua su se stesso e sugli amici con la proboscide. Tuttavia anche dopo ripetuti ordini del conducente, la nostra Kali non ne vuol sapere… Pare che abbia freddo… Attendiamo ancora un quarto d’ora sperando che si convinca ma non c’è niente da fare…Esperimento fallito! C’è un po’ di delusione nei volti dei miei compagni mentre torniamo al lodge per il pranzo.
Ma Il pomeriggio promette una nuova interessante avventura, una gita in canoa sul fiume Rapti che raggiungiamo in pulmino. Il cielo si è rasserenato facendo ben sperare per le osservazioni astronomiche di stasera e le canoe sono lì che ci attendono, ognuna ricavata da un tronco d’albero.
Indossiamo i salvagenti e ci vengono date le necessarie istruzioni: bisogna salire molto lentamente e non fare movimenti bruschi perché la canoa potrebbe ribaltarsi, inoltre mai mettere le mani in acqua visto che il fiume è pieno di coccodrilli…
Ci dividiamo quindi in due gruppi e quando siamo tutti posizionati il barcaiolo dirige la prua verso ovest con remate sapienti. Avanziamo spediti, il bordo esterno della canoa esce solo di pochi cm dall’acqua che scorre veloce e svariati bambini ci salutano dalle sponde. Non tardiamo ad avvistare il primo coccodrillo, steso sulla riva opposta con le fauci spalancate verso il tramonto. Un piccolo uccello colorato, un Martin pescatore, sfreccia sull’acqua accanto a noi con un lampo azzurro e si rifugia nella foresta, poi ecco un animale che non avevo mai visto, il Gaviale del Gange, un coccodrillo con il muso lungo e sottile che si ciba solo di pesci.
Approdiamo sull’altra riva e seguiamo le guide lungo un sentiero nella giungla boscosa, anche in questo caso si raccomandano di rimanere in silenzio per non far scappare gli animali. Attraversiamo un ponte di legno un po’ precario, tanto da vedere il fiume tra le assi sconnesse sotto di noi, per non parlare dell’ultima parte che si riduce ad un tronco scivoloso.
Dopo qualche decina di minuti arriviamo ad un centro di recupero di coccodrilli, tartarughe e gaviali, tra questi ultimi ce n’è uno di 50 anni molto grande e impressionante. Ormai è ora di tornare, riprendiamo la marcia per raggiungere Apo che ci attende all’ingresso del parco e osserviamo in lontananza alcuni pecarì, cinghiali selvatici, gli ultimi animali che vedremo al Chitwan. Dopo cena una nuova coltre di nubi ci fa rinunciare anche stasera alle osservazioni. Peccato, niente picco delle stelle cadenti…
22 Ottobre, si riparte per il lungo ritorno, che se possibile si rivela ancora peggio dell’andata. La strada in salita infatti ci obbliga ad un’andatura da lumaca, con quintali di polvere sollevata da tutti quelli che ci precedono o ci sorpassano. Finalmente verso mezzogiorno ritroviamo la strada asfaltata e ci prepariamo alla visita del tempio induista di Manakamana, che si raggiunge con una cabinovia.
Il tempio si trova infatti a circa 1300 metri di altezza più o meno a metà strada tra il parco Chitwan e Pokhara, nostra destinazione finale, presso Kumintar nel distretto di Gorka, dove nel 1998 è stata costruita la bella cabinovia (importata dall’Austria) che permette ai fedeli di evitare una scarpinata di un paio di ore.
Il tempio è dedicato alla dea Bhagwati, incarnazione di Parvati. Il nome Manakamana è composto da “mana”, ovvero cuore e “kamana” cioè mente. Venerato fin dal 1600 si crede che la Dea possa realizzare i desideri dei fedeli che vengono qui a sacrificare doni e animali per essere ascoltati.
Al tempio giungono fedeli da tutto il Nepal e anche dall’India, ci dice Kabir, ed in effetti una gran quantità di persone è incolonnata in attesa di salire sulla cabinovia, ognuno con le proprie offerte da sacrificare alla dea, frutti, farina, riso, vegetali, uova, polli, tacchini e perfino capre! Coperto il dislivello di un migliaio di metri, che ci offre una bella visuale sulla vallata e sul sacro fiume Trisuli, in cima ci attende un gran bazar in stile indiano, con un caos incredibile ed ogni genere di cianfrusaglia in vendita.
Seguiamo Kabir farsi strada tra la folla fino al tempio, purtroppo racchiuso da un’impalcatura dopo il terremoto. Qui gli occidentali non possono entrare e sinceramente la cosa non mi dispiace, assistere al sacrificio di qualche povero animale, anche se ciò fa parte della cultura di un altro popolo, non mi attira per nulla. Kabir ci spiega che, dopo essere stati sacrificati, ovvero offerti alla dea, gli animali vengono riconsegnati ai proprietari che solitamente li mangiano. Solo la testa e il sangue sono lasciati al tempio.
Tre santoni a gambe incrociate di fianco al tempio sono a disposizione dei fedeli per benedizioni personalizzate, apponendo il rosso Tilak, fatto in genere di pasta di sandalo, cenere, argilla o altre sostanze, sulla fronte e infilando braccialetti portafortuna ai polsi. Praticamente tutto il nostro gruppo non si lascia sfuggire l’opportunità di questo conforto spirituale e protezione da spiriti maligni, sfortuna e forze del male.
Peccato che col passare dei minuti il Tilak si sciolga, colando sulla fronte e dando l’impressione di aver tutti sbattuto la testa! Si scende per effettuare il pranzo in un bel ristorante con giardino, piscina e spiaggia sul fiume Trisuli, il Riverside Spring Resort, in cui ci rilassiamo a dovere dalle fatiche di questa intensa giornata. Poco dopo ci attende infatti l’attraversamento di un lungo ponte tibetano sul fiume, un’esperienza che andava fatta, piuttosto impressionante, anche se in realtà il ponte è molto robusto, in metallo, realizzato di recente accanto a quello più antico in legno e corda.
Risaliamo a bordo e arriviamo a Pokhara verso le 17.00, all’hotel Mount Kailash, una splendida struttura con piscina e centro benessere, quello che ci vuole dopo la massacrante giornata. Anche la cena è ottima, ma ancora una volta il cielo nuvoloso con leggera pioggerellina, ci impedisce le osservazioni. Speriamo che la situazione migliori domani, visto che abbiamo l’ultimo appuntamento con l’Himalaya all’alba.
23 Ottobre, la sveglia suona molto presto e alle 5 siamo già in partenza per salire i tornanti che portano al monte Sarangkot alla periferia della città, in coda a una lenta fila di auto e furgoncini che sbuffano e arrancano sul pendio. A un certo punto si parcheggia, è necessario proseguire a piedi per un piccolo tratto lungo le vie di questo borgo montano affollato di turisti, tutti desiderosi di ammirare all’alba le cime himalayane, anche se uno sguardo al cielo nuvoloso non lascia molte speranze…
Kabir ci conduce ad una delle migliori postazioni panoramiche, in corrispondenza di una struttura che ospita un punto ristoro e una vendita di souvenirs con due grandi terrazze che cominciano ad affollarsi, soprattutto dei soliti rumorosissimi cinesi. Il cielo lentamente schiarisce ad est rivelando una grigia coltre di nubi sulle montagne.
Il clima non è freddo, ma l’aria fresca che sta soffiando induce ad indossare la felpa… Qualche minuto d’attesa e miracolosamente la prima montagna comincia a fare capolino tra i veli di foschia, dapprima una sottile cuspide illuminata dal sole, che piano piano cresce facendo partire l’applauso del pubblico che osserva a bocca aperta.
Non c’è dubbio, si tratta del Machhapucchare, una montagna di 6997m (in nepalese “Coda di pesce”), la cui cima triangolare ricorda l’immagine di un candido fantasma. E’ una montagna sacra e non è consentito scalarla, il Machhapuchhare è dunque la sola montagna inviolata del Nepal, estromessa dalle sfide degli scalatori.
Si sta aprendo anche uno squarcio più ad ovest, rivelando altri monti del massiccio dell’Annapurna: l’Hiunchuli (6441 m.), l’Annapurna I (8091 m.), il primo ottomila conquistato dall’uomo ma anche il più pericoloso, l’Annapurna III (7555 m.), l’Annapurna IV ( 7525 m.) e l’Annapurna II ( 7937 m. ). Partono scatti fotografici e riprese video, tutti siamo incantati dalle vette himalayane che si stanno concedendo lentamente al nostro sguardo, quasi con timidezza: ora si coprono, ora si scoprono…
Con l’avanzare dell’alba le cime si tingono di rosa, che diventa poi un colore più arancione e infine il sole sorge dando vita al nuovo giorno, illuminando e creando riflessi tra le nebbie che coprono le colline sottostanti. Il gioco di luci e colori è meraviglioso e perfino i cinesi ora sono in silenzio ad ammirare questa bellezza naturale.
Alla fine, nonostante le nuvole incombenti e la visione non troppo limpida ce l’abbiamo fatta, ora possiamo tornare a Pokhara a far colazione prima di un giretto in città. Si comincia con la zona vecchia, conosciuta come la Old Pokhra o Pokhara Bazaar, in cui come in altre occasioni osserviamo situazioni contrastanti: povera gente che dorme in sgangherati e luridi negozi accanto a splendide gioiellerie e vacche sacre riccamente agghindate che attraversano la strada fermando il traffico. Anche qui molte sono le macerie del terremoto. Siamo diretti all’antico tempio di Bindhya Basini, fondato nel XVII secolo, che raggiungiamo salendo la scalinata che porta in cima ad una collina. Da qui si avrebbe una bella vista sullo spettacolare massiccio dell’Annapurna, se non fosse di nuovo avvolto dalle nuvole…
Il tempio, bello e colorato, è consacrato a Durga, l’incarnazione guerriera di Parvati, venerata qui nella forma di un “Saligram” (fossile di ammonite, un tipo di conchiglia marina).
La mattina è ancora lunga e quindi Apo ci porta al villaggio Tibetano di Tashiling. Quest’area, ci racconta Kabir, è stata creata a Pokhara per accogliere i rifugiati provenienti dal Tibet durante i conflitti e l’invasione del loro territorio da parte della Cina. Sono passati parecchi anni e le persone che si sono insediate qui hanno ormai scelto questa come nuova casa e pur mantenendo le proprie tradizioni e la propria lingua, si sono integrati perfettamente.
Scendiamo. Il quartiere è di per se molto semplice, costituito da casette basse dipinte con colori vivaci, un tempio buddista e una zona commerciale con un emporio nel quale, prevalentemente le donne, vendono prodotti artigianali fatti a mano. Appese alle pareti tantissime foto che testimoniano la tragedia dell’invasione cinese, la fuga dal Tibet e l’accoglienza di oltre 60.000 esuli da parte del Nepal.
In queste persone, sia giovani che anziani, il rispetto per il Tibet è palpabile, una terra lontana che però ancora amano e sognano un giorno di tornare ad abitare. Lasciamo il villaggio e seguiamo Kabir per vedere alcune bellezze naturalistiche della città. Pokhara è per esempio attraversata dal fiume Seti Gandaki, la cui originalità sta nel fatto che scorre per lo più sottoterra, affiorando solo in alcuni punti. Non è quindi facile da vedere e uno dei luoghi migliori è una balaustra al di sopra di una stretta e profonda gola. Da qui osserviamo l’oscuro e impetuoso torrente correre veloce e spumeggiare tra le rocce sotto i nostri piedi…
Torniamo indietro attraversando un piccolo giardino botanico con un bambino su di un’altalena gigante fatta di bambù, che ci osserva silenzioso. E poco dopo siamo di nuovo in centro, per la precisione alla Gupteshore Mahendra Cave, una grande grotta calcarea famosa per le sue stalattiti e stalagmiti. La grotta è dedicata al dio Shiva e prima dell’ingresso troviamo un tempio a lui dedicato, che precede la discesa verso la grotta con un’ampia scalinata a chiocciola fiancheggiata da statue e bassorilievi.
Gli scalini diseguali e sdrucciolevoli che continuano a scendere ci costringono a fare molta attenzione a dove poggiamo i piedi, la luce è poca e l’umidità elevata. Questa grotta fu scoperta alla fine degli anni ’50 da alcuni giovani pastori, ci dice Kabir mentre avanziamo in stretti pertugi. L’acqua che stilla perenne dal lucido calcare ha scolpito le pareti ed il fondo della grotta e formato bizzarre strutture nelle quali la fantasia dei devoti ha saputo individuare forme e sembianze di divinità Hindu. Superato un piccolo tempio con una statua di Ganesh, si prosegue di nuovo verso il basso con scale sempre più scivolose e sempre meno luce.
I fedeli e i turisti si affollano lungo un’ultima e ripida scaletta che scende in una vasta caverna. Si sente il rumore del fiume Seti che infatti ricompare assieme alla parte finale delle Devi’s Falls, rotolanti all’interno della caverna. A turno, dalla stretta piattaforma di osservazione, ci sporgiamo per fotografare lo spettacolare anfratto, una lunga e alta fenditura nella montagna da cui entra la luce del giorno assieme al fiume, in un forte contrasto con il buio della caverna.
Ora ci attende la salita, piuttosto faticosa, poi l’ultimo appuntamento della mattinata, le Devi’s Falls appunto. Curiosa la storia all’origine del nome delle cascate. Nel 1961 Daniel e sua moglie Devi, due escursionisti svizzeri stavano nuotando nel fiume quando improvvisamente Devi scomparve in un cunicolo. Il suo corpo non fu mai trovato, ma a causa di questo incidente, le cascate furono scoperte e divennero un’attrazione popolare per molte persone.
Come nel caso della caverna si tratta di una cascata vera e propria in pieno centro città. Siamo alla fine della stagione delle piogge e questo è il momento migliore dell’anno per ammirarla. Uno splendido spettacolo ci attende infatti al punto di osservazione: con alcuni salti, l’acqua precipita assordante tra la rigogliosa vegetazione e le pareti del canyon. Valeva sicuramente la pena di un po’ di fatica!
Ma ora è arrivato il momento del pranzo e di un po’ di riposo, poi l’ultimo impegno della giornata: la gita in barca sul lago Phewa. Pokhara è chiamata la città dei laghi per la presenza di 7 laghi nelle vicinanze, di cui il Phewa, che si trova proprio accanto al nostro hotel, è il più grande e il secondo per dimensione in tutto il Nepal.
L’atmosfera lacustre ispira pace interiore e serenità già solo passeggiando lungo le sue rive. I riflessi e i colori delle tante barchette di legno (doonga) ormeggiate lungo le sponde, creano infatti un ambiente caratteristico e cadenzato dal ritmo degli scafi ondeggianti mossi dalla risacca. Siamo invitati a prendere posto su due doonga e iniziamo a navigare placidamente sul lago, in un pomeriggio grigio e un po’ ovattato.
Notiamo su una collina una pagoda, la Pagoda della Pace Mondiale (Shanti Stupa), inaugurata nel 1999, da cui si gode di uno splendido panorama, ma la nostra destinazione è il tempio di Barahi, all’interno del lago, sull’isoletta di Ratna Mandir, che raggiungiamo dopo una mezz’ora. Altre barche sono ormeggiate sull’isola e molti giovani si fotografano con lo sfondo della bella pagoda a due piani, dedicata alla manifestazione del cinghiale Ajima (un’incarnazione di Vishnu). Questo tempio è di per se molto semplice, ma un grande numero di fedeli si reca qui ogni giorno per pregare e portare doni all’altare principale.
L’atmosfera è decisamente romantica, con il lago, le aiuole fiorite e Il suono della campane suonate dai fedeli.
Al ritorno in hotel decido di montare il Dobson per un ultimo estremo tentativo di osservare qualcosa, ma dopo cena le nuvole sono ancora presenti vanificando tutto…non mi resta che mostrare ai compagni di viaggio lo strumento che ci avrebbe consentito di vedere pianeti, nebulose e galassie con un meteo più favorevole. Tutti sono impressionati dalle dimensioni del telescopio, Kabir più degli altri, mi domanda come abbia fatto a trasportarlo!
Il 24 Ottobre è il giorno del lungo, estenuante e faticosissimo ritorno a Kathmandu, interrotto solo dal pranzo al Riverside Spring Resort dell’andata e da una sosta ad un altro ponte tibetano presso un piccolo villaggio, in cui le donne portano un particolare ornamento al naso. Solo dopo 10 ore di viaggio, in cui Elmo non si capacita delle numerose ruspe ferme e inoperose a fianco delle strade dissestate e dopo aver riattraversato l’infernale traffico della capitale all’ora di punta, siamo finalmente in hotel. La mattina dopo c’è un po’ di tempo libero per tornare in centro a completare gli acquisti dei souvenir e a rivedere lo “Stupone,” oppure per un po’ di relax nella piscina dell’hotel.
Al pomeriggio ci aspetta Kabir con il pulmino per l’aeroporto, è il momento dei saluti e dei ringraziamenti da parte di tutto il gruppo per l’assistenza, la simpatia e la professionalità dimostrata in questo viaggio. Ora deve accompagnare un gruppo di escursionisti al campo base dell’Everest, a 5200m! Certo da lassù i paesaggi ed il cielo devono essere straordinari, vien da pensare mentre imbarchiamo i bagagli…una bella idea per tornare un giorno in questo lontano e affascinante paese sul tetto del mondo!
LE FOTO SONO DI: Elsa Arcangeli, Massimiliano Di Giuseppe, Simona Musiani, Barbara Reggiani e Olivio Righi.
I video sono di Olivio Righi