PERU’ e BOLIVIA 2013: ad un passo dal cielo!
di Massimiliano Di Giuseppe
Questa volta il viaggio è uno di quelli veramente tosti, un interessantissimo e lungo tour di 3 settimane in Perù e Bolivia, alla ricerca di bellezze paesaggistiche ed archeologiche di grande rilievo, di cieli puri e limpidi come solo le vertiginose altezze degli altopiani andini possono offrire, a quasi 5000m di quota!
Anche per questo motivo il 24 Giugno 2013, alla partenza dall’aeroporto di Bologna siamo solo in 5, oltre al sottoscritto accompagnato dalla moglie Arianna Ruzza, anche l’esperto alpinista e veterano di viaggi astronomici Bruno Giacomozzi, Esther Dembitzer, un vero mito che ci ha seguito ormai in una ventina di viaggi, tra piogge di meteore, eclissi ed aurore boreali e Giorgio Massignani, ultimamente con noi in Uzbekistan e Lapponia Svedese.
Dopo uno scalo ad Amsterdam la spedizione di Coelum, arriva a Lima, capitale del Perù nel tardo pomeriggio, accolta all’uscita dell’aeroporto da Andrea referente di ” Perù Responsabile”, il tour operator locale e da un gigantesco cartellone illuminato con l’immagine di Machu Picchu. A Bruno brillano già gli occhi per l’emozione… tra pochi giorni saremo lì! Ancora rintronati dal fuso orario facciamo assieme ad Andrea il punto e l’esame del lungo programma che ci aspetta, ci dice di chiamarlo per qualsiasi problema e ci consiglia anche un ristorante per la cena, ma siamo troppo stanchi e ci ritiriamo quasi subito nelle stanze del nostro hotel De Ville.
Il giorno dopo, 25 Giugno, siamo decisamente riposati e veniamo raggiunti dopo colazione dalla nostra guida, Carmen, per il previsto City Tour, la cui prima tappa prevede una sosta al Parque del Amor, situato nel vivace quartiere di Miraflores e affacciato sul Pacifico direttamente sulla scogliera della Costa Verde. Il parco, come dice il nome, è una delle zone preferite dai giovani innamorati e nel suo centro campeggia una gigantesca scultura raffigurante una coppia andina amoreggiante, chiamata “Il bacio” , opera dello scultore Victor Delfin.
Il cielo è grigio, nebbioso, Carmen ci spiega che a Lima il meteo è così purtroppo per tutto l’inverno australe, con l’umidità del Pacifico che condensa proprio sulla città. Lima ha più di 7 milioni di abitanti, ma non è così caotica come ci si potrebbe aspettare, forse anche per la presenza diffusa di militari e forze dell’ordine. Ci spostiamo alla Huaca Pucclana, nel cuore di Miraflores, una grande piramide a gradoni preincaica, probabilmente un luogo amministrativo e cerimoniale, una costruzione particolare, in mattoni di adobe, che risale probabilmente al 500 d.C, è il primo di una lunghissima serie di siti archeologici che visiteremo nel corso del viaggio.
Dopo aver attraversato l’elegante e ricco quartiere di S.Isidro, pieno di ulivi centenari, e aver cambiato al volo gli euro in dollari peruviani, facciamo tappa a Plaza Major in cui visitiamo la Cattedrale, in stile barocco Churriguerresco, al cui interno si trova la tomba del conquistador Francisco Pizarro e notevoli banchi lignei del coro dietro l’altare.
Carmen ci ricorda come purtroppo dopo l’arrivo dei conquistadores spagnoli, nel 1533, non esistano più nel centro di Lima costruzioni e templi incaici, demoliti e sostituiti da chiese e palazzi governativi spagnoli.
Andiamo a mangiare qualcosa , poi riprendiamo le visite con il convento di S.Francisco, i cui chiostri sono impreziositi da maioliche di Siviglia in stile moresco, da una sala con dipinti e da una ricchissima e antica biblioteca, simile a quella del film “Il Nome della Rosa”, infine, nella parte inferiore del convento, le catacombe, in cui si ammassano in maniera inquietante ossa e teschi di 70.000 persone.
La giornata si conclude con il passaggio a piedi del Puente de Piedra, sorvegliato da un mezzo blindato dell’esercito, sopra il fiume Rimac, oggi ridotto a un misero rigagnolo e con la visita dell’interessantissimo museo precolombiano Larco Herrera, dotato di una ricchissima collezione di ceramiche, appartenenti sopratutto alle civiltà Mochica e Chiclin. Ma fanno bella mostra di sè anche preziosi e luccicanti ornamenti in oro, indossati a quel tempo da re e sacerdoti in occasione di importanti cerimonie, che ci immaginiamo impressionanti nel riverbero metallico di copricapi e armature alla limpida luce del sole. Interessante anche il deposito del museo, anch’esso visitabile e la sezione di arte erotica preincaica, che suscita più di una risata fra i componenti della spedizione. All’uscita alcuni colibrì svolazzano tra i fiori fucsia di bouganville.
Salutiamo Carmen e andiamo a cena presso il ristorante Las Canastas, in cui cominciamo a famigliarizzare con la cucina criolla peruviana, a base di carne alla brace come lomo saltado e anticuchos, il tutto annafiato da birra e cicha morada, una bevanda ottenuta da un particolare tipo di mais di colore viola scuro, aromatizzata con chiodo di garofano e cannella.
Il 26 Giugno la sveglia suona presto, la partenza infatti è fissata per le 4.00 e un pulmino ci viene a raccogliere per condurci a Paracas, 200 km a sud di Lima sulla costa, che raggiungiamo dopo 4 ore di comoda strada litoranea, nel grigiore ovattato dell’inverno australe. Fortunatamente non piove e la nebbia è alta per cui non viene pregiudicata l’escursione in barca alle isole Ballestas, si parte da un piccolo porticciolo e siamo subito oggetto dell’attenzione di alcuni delfini che ci saltellano accanto.
La prima tappa è il famoso “Candelabro”, un gigantesco geoglifo di 128 m scolpito su una parete di roccia color crema e rivolto verso il Pacifico che pare rappresentasse un cactus o l'”albero della vita”, oggetto di venerazione da parte delle civiltà Paracas e Nazca. Secondo Erich Von Daniken, autore del libro “Gli extraterrestri torneranno” il Candelabro avrebbe invece correlazioni con le misteriose linee di Nazca, indicando ad una ipotetica astronave aliena in visita, la loro posizione!
Mentre commentiamo a bordo con i nostri ingombranti giubbotti di salvataggio arancioni queste ardite ipotesi, ci avviciniamo navigando su un mare tranquillo all’arcipelago delle Ballestas situato a 10 miglia dalla costa, dove si ripete un’esperienza simile a quella vissuta una decina di anni fa alle isole Choros al largo della costa cilena. Un gruppo di scogli scuri ci appare pullulante di uccelli marini di tutti i tipi: sterne, cormorani, pellicani, sule e pinguini di Humboldt, che ricoprono questi faraglioni di guano, in quantità così grande da essere estratto industrialmente e utilizzato come fertilizzante.
Gli uccelli marini volano a migliaia in lunghe colonne in cielo simili ad autostrade e si affollano ovunque attorno a noi, in acqua e sugli scogli in compagnia dei simpatici leoni marini che un po’ svogliatamente alzano il muso e ci osservano.
Di ritorno dopo due ore all’imbarcadero, incontriamo i nostri autisti e con loro andiamo a pranzo in un vicino ristorante,specializzato nel “ceviche”, pesce marinato nel succo di limone e aromatizzato con aji. Per me non è male, altri scuotono la testa. E’ anche l’occasione per provare la discutibile Inca Kola, una sorta di cedrata gialla e gasata e il succo di Maracuja.
Si riprende la marcia, dobbiamo arrivare a Nazca nel primo pomeriggio. Basta allontanarsi un po’ dalla costa e alzarsi un po’ di quota ed ecco che la nebbia si dirada e torna a splendere il sole in un cielo finalmente blu e limpido, che fa risaltare i colori di un terreno sempre più arido e sabbioso, buono solo per acacie, palme e cespugli di Paprika. Tra una duna e l’altra sostiamo brevemente all’oasi di Huacachina, 5 km a sud est della città di Ica, una laguna di colore verde azzurro alimentata da una fonte sotterranea ed incastonata tra imponenti dune di sabbia, circondate a loro volta da fitti palmeti.
Nel frattempo con gli autisti cerchiamo di capire se è possibile anticipare il sorvolo delle famose “Linee di Nazca” al tardo pomeriggio piuttosto che l’indomani mattina onde evitare eventuali problemi con banchi di nebbia. La cosa è fattibile e abbiamo appuntamento al piccolo aeroporto alle 17.30. Il deserto ora si fa piatto caldo e pietroso, siamo entrati nella piana di Nazca e ci fermiamo presso un’alta torre chiamata Mirador per un primo impatto con due delle linee, ovvero “le Mani” e “l’Albero”.
E’ una grande emozione posare gli occhi su questi antichi geoglifi, uno di quei luoghi misteriosi che desideravo vedere fin da bambino. Ne sentii parlare per la prima volta nel lontano 1979 in un episodio della serie animata giapponese Gaiking e da allora ne sono rimasto affascinato. Sono visibili solo dall’alto e per questo sono sempre state oggetto delle più fantasiose ipotesi: come hanno fatto gli antichi Nazca a realizzarle e sopratutto a chi erano rivolte?
Scoperte nel 1927, le linee di Nazca sono più di 13.000, alcune simili a vere e proprie piste di atterraggio, vi si possono riconoscere inoltre 800 disegni, realizzati probabilmente tra il 300 ed il 500 d.C. durante il massimo sviluppo della civiltà Nazca. Sono state ottenute spostando le pietre dal deserto che hanno rivelato il terreno sottostante più chiaro e proprio il clima estremamente arido della zona ha consentito alle “linee” di arrivare intatte fino a noi.
La più grande studiosa di questi disegni è stata negli anni ’60 l’archeologa Maria Reiche, secondo cui le linee rappresenterebbero un gigantesco calendario astronomico, con perfetti allineamenti con il sorgere o il tramontare di determinati corpi celesti, allo scopo di prevedere i tempi della semina e del raccolto, l’arrivo delle piogge ecc.
Più recentemente l’archeoastronomo Anthony Aveny ha ipotizzato che le linee potrebbero rappresentare sentieri da percorrere durante riti legati all’acqua e alle piogge, visto che la maggior parte di loro sono rivolte verso il punto in cui sorge il sole durante il solstizio invernale che segna difatti l’arrivo delle ( rare) piogge.
Arriva il momento tanto atteso di salire sul piccolo monomotore, fra l’apprensione di Arianna che ha appena saputo che ogni tanto qualcuno di questi velivoli si schianta nel deserto…
Il pilota tuttavia è impeccabile ed in breve, dopo un briefing preliminare ed un’attenta disposizione dei pesi delle nostre persone nell’abitacolo, siamo in volo e cominciamo a sbirciare dal finestrino.
L’aereo fa una virata e si abbassa, dalla cuffia il pilota ci avverte che sotto di noi si vede il primo
disegno, quello della “Balena”, un’antica divinita’ marina lunga 65m. Il contrasto della luce radente del sole al tramonto con il terreno è perfetto e il contorno bianco della figura emerge dal deserto rossiccio. L’aereo fa una nuova virata per consentire anche ai passeggeri dell’altro lato,di vederla.
La manovra prosegue per 12 volte tanti sono i disegni che ammireremo, i più famosi, naturalmente moltiplicata per 2 , per entrambi i lati dell’aereo, con relativo scombussolamento di stomaco di tutti noi, meno male che abbiamo mangiato da un po’…
Sotto di noi ci appaiono quindi i “Trapezi”, due trapezi lunghi 93 m e l’inquietante “Astronauta”, una figura umana di 30 m disegnata su una collina con una curiosa forma della testa, simile ad un casco e la mano alzata in segno di saluto, che secondo Maria Reiche rappresenterebbe uno sciamano o un sacerdote.
La “Scimmia”è una delle figure più belle, di 135 m, con la coda a spirale: poteva essere la rappresentazione dell’Orsa Maggiore o un animale divino associato all’acqua. Di seguito il “Cane” ( 50 m ), il “Colibrì”, bellissimo, lungo 94m e largo 66, ritenuto un messaggero divino e poi il “Ragno”, lungo 45 m, un ragno della specie “Racinulei”, originario della foresta amazzonica, che si trova a ben 1500km di distanza. In natura il ragno misura solo 6mm e ha una caratteristica particolarissima, sono i maschi a deporre le uova mediante un’escrescenza appuntita che si trova sulla terza zampa, rappresentata con precisione nel disegno di Nazca. Il problema è che questo particolare è visibile solo con un microscopio…Veramente curioso… La Reiche riteneva il “Ragno”anche associabile alla costellazione di Orione.
Una nuova stretta virata con lo stomaco che si ribella ed ecco il “Condor”, lungo 130m con un’apertura alare di 115m, associato alle divinità delle montagne, il “Pellicano” o “Alcatraz”, lungo ben 300 m, con la peculiarità che se ci si posiziona sul suo becco il 21 Giugno, solstizio d’inverno, si vedrà sorgere il sole esattamente in quella direzione. E poi il “Pappagallo” ( 230m ), le Mani ( 50m ), viste anche al Mirador, una delle quali con 4 dita, prova che i Nazca ritenevano i menomati veri e propri privilegiati, figli del Dio del Fulmine o del Tuono, quindi legati alle piogge e all’acqua e infine l'”Albero” ( 70m ).
Atterrati sani e salvi chiediamo al pilota quali siano le teorie più accreditate sui disegni di Nazca.
Ci risponde che molto probabilmente si trattava di animali totem o spiriti aiutanti, utilizzati dagli sciamani al fine di comunicare con l’aldilà per ingraziarsi le divinità portatrici di pioggia, essenziale per l’agricoltura in un luogo così arido. Per questo motivo dovevano essere visibili dall’alto. Tutto ciò eviterebbe di ricorrere a ipotesi extraterrestri come quelle del consueto Von Daniken, che le riteneva piste di atterraggio e decollo per astronavi aliene. Anche la loro realizzazione, se pur misteriosa, si deve probabilmente alla grande conoscenza della geometria da parte dei Nazca, che avrebbero effettuato prima piccoli disegni, ampliandoli poi attraverso un sistema di griglie e reticoli utilizzando paletti e corde, ritrovati in seguito accanto ad alcuni di questi.
Ritroviamo gli autisti che ci conducono al centro di Nazca, una città squallida e molto povera, in cui regnano disordine e case macilenti. Noi tuttavia alloggiamo in un’oasi felice, il Museo Antonini, un centro italiano di ricerche archeologiche diretto dal dr. Giuseppe Orefici, in cui solitamente alloggiano ricercatori e archeologi, ma in cui abbiamo avuto in via eccezionale il permesso di pernottare.
Ci ritempriamo nella frescura della sera dopo il caldo del deserto e abbiamo il primo impatto con il cielo australe dall’ampio terrazzo in cui si affacciano le nostre stanze. Tra le chiome degli alberi di carrube del parco ecco comparire la Croce del Sud ed Alfa e Beta Centauri e col binocolo di Esther, il primo saluto ad Omega Centauri e ad Eta Carinae. Il cielo è ricchissimo di stelle nonostante le luci della città, avrei potuto anche montare il Dobson da 25 cm autocostruito, ma ormai è troppo tardi e dopo una cena in un ristorante rallegrato da menestrelli locali, ci ritiriamo per un sonno ristoratore.
La mattina del 27 Giugno è splendida e veniamo svegliati dai cinguettii di uccelli esotici, scendendo a far colazione incontriamo Luis, la guida che ci illustrerà il Museo Antonini, realizzato proprio tra la fitta vegetazione del parco. Ammiriamo l’antico acquedotto Nazca di Bisambra, che testimonia la loro abilità nel trovare e raccogliere l’acqua in canali, attingendola da serbatoi naturali sotterranei.
Visitiamo poi con Luis i diversi settori del museo, dalla sala che ospita il corpo mummificato di una donna di più di 2000 anni fa, alle teste trofeo ritrovate a Cahuachi, alla ricca collezione di arte tessile e di ceramiche, a cui si aggiungono strumenti musicali in argilla ed altri di uso comune realizzati con ossa umane aghi di cactus e pelle di lama.
Salutiamo Luis e procediamo verso la nostra prossima meta che raggiungeremo però solo in serata, la città di Arequipa distante da lì 565 km. Torniamo sulla Panamericana che costeggia il Pacifico e naturalmente nella nebbia mentre iniziano le lezioni di fotografia di Giorgio, esperto fotografo ad Arianna, desiderosa di imparare le tecniche più raffinate per fotografare gli splendidi panorami che ci aspettano i prossimi giorni.
Lungo il percorso sostiamo presso un gigantesco canyon, una delle faglie che testimoniano lo scorrimento della placca di Nazca rispetto al Pacifico e che sono causa di terremoti anche devastanti in quest’area del Sudamerica. Gli autisti si fermano per il pranzo a Chala presso il ristorante Hotel de Turistas, che si affaccia direttamente sul mare e naturalmente il pasto è a base di pescado. A Camana la strada devia verso l’interno e si alza decisamente fino alle falde della Cordigliera Occidentale delle Ande e ai 2400m di Arequipa, che raggiungiamo quando ormai è buio.
Il nostro alloggio è l’hostal La Casa de Melgar, un notevole esempio di architettura arequipena risalente al XVIII secolo, con stanze in stile coloniale che si affacciano su uno splendido giardino. Qui visse fino ai primi del ‘900 il vescovo di Arequipa Manuel Segundo Ballon e per un certo periodo il poeta e patriota peruviano Mariano Melgar.
E’ un posto veramente caratteristico, uno strano miscuglio di stili: un misto fra una masseria pugliese, una casa berbera dell’Atlante marocchino e giardini cinesi.
Siamo vicinissimi al centro storico e dopo un’occhiata al cielo da uno dei terrazzi del nostro hostal, ( troppo inquinamento luminoso per fare qualcosa di serio ), ci dirigiamo alla cena, accorgendoci subito della vivacità ed allegria che pervade questa città di 800.000 abitanti che ci appare da subito bella e accogliente. Questa volta gustiamo una sopa de Camarones ( gamberoni ), anche se Bruno mal tollera il coriandolo, una spezia che i peruviani usano mettere un po’ dappertutto.
Il mattino del 28 Giugno, una nuova giornata di sole rivela gli accesi colori del nostro hostal, con pareti azzurre, arancioni e rosse e fiori di tutti i tipi che ne abbelliscono ogni angolo.
La colazione viene servita all’aperto sotto una veranda, la temperatura è fresca ma gradevole, oltre le consuete marmellate e burri da spalmare sul pane, qui hanno anche lo sciroppo di Algarrobina, ottenuto dalle carrube, molto dolce ed energetico e succo verde di Granadilla, frutto ricchissimo di vitamina C. Iniziamo anche a prendere il mate de coca, il te’ servito con foglie di coca, rimedio indiscusso contro il mal di montagna, dobbiamo infatti preparare il nostro fisico alle grandi altezze che raggiungeremo i prossimi giorni, anche se in realtà ci stiamo alzando gradualmente e ciò dovrebbe limitare i danni.
Alla reception incontriamo Wilbert, la nostra guida per Arequipa, che subito ci conduce attraverso uno splendido portale in granito alla vicina Plaza de Armas, dominata dalla cattedrale, che ne occupa tutta la parte frontale, costruita in stile rinascimentale, con due torri e una copertura a botte gotica. E’ realizzata in sillar, un materiale tra il bianco e il perla che proviene da lava vulcanica pietrificata, come gran parte della città che per questo motivo è detta la “città bianca”. Al centro della piazza una fontana in bronzo in cima alla quale si trova un angelo chiamato Turututu per via della tromba che tiene in mano. Spostandoci lungo la piazza, vediamo spuntare dietro la cattedrale la sagoma innevata del vulcano El Misti alto ben 5821 m, che domina la città.
La seconda tappa è il museo della mummia Juanita, la principessa di ghiaccio. La visita inizia con un video introduttivo che mostra il ritrovamento del corpo della giovane e bella ragazza inca di 13 anni sacrificata agli dei con un colpo alla testa come era usanza per ingraziarseli nei momenti difficili e rinvenuta l’8 Settembre 1995 sulla vetta del monte Ampato a 6380m, dagli archeologi John Reinhard Josè Chavez e Miguel Zarate. Si pensa risalga al 1450 d.C. Passiamo in rassegna oggetti di artigianato rinvenuti nei pressi del luogo di sepoltura fino alla visione di Juanita, perfettamente conservata in un congelatore a -26°,dalle pareti di vetro.
Wilbert ci porta poi al mercato coperto e qui abbiamo il primo impatto con le credenze superstiziose peruviane, in una bancarella vengono infatti venduti feti di lama mummificati da offrire in dono alla Pachamama (la Madre Terra in lingua Quechua), per avere in cambio fortuna , denaro e buona salute.
Passiamo poi al reparto ortofrutticolo e Wilbert ci fa assaggiare alcuni frutti locali come la Granadilla, che aperta mostra una fresca gelatina verde ricca di semi scuri, poi la Pepa, un lungo frutto bianco simile alla banana e il melone Pepino, buonissimo.
Ci mostra poi un recipiente pieno di Quinoa, un cereale ricchissimo di proteine molto diffuso in Perù e svariati tipi di patata, tra cui una allungata chiamata Oca. Molti venditori masticano foglie di coca come da tradizione, Wilbert ci dice che possiamo farlo anche noi raccomandandosi però di non ingerirle. Abbandoniamo il mercato passando accanto ad un cumulo di teste di lama appoggiate su un bancone…
Poi è il momento degli acquisti e Wilbert ci porta in un negozietto che vende capi di abbigliamento in lana di lama e alpaca, ci sarebbe anche la vigogna ma ha costi veramente proibitivi!
Ci attende quindi la visita del Monastero di Santa Catalina, uno degli edifici religiosi più belli del Perù, che si estende per ben 20.000 mq. Fondato nel 1579 e dedicato a Santa Caterina da Siena, era un convento destinato a donne di diversa provenienza sociale destinate a diventare monache di clausura, mostra un’eccellente fusione di elementi coloniali e nativi. Visitiamo le celle delle suore ,la pinacoteca, il chiostro delle novizie, la chiesa principale, la lavanderia con mastelle dominata da un gigantesco albero di Araucaria, la fontana monumentale e girovaghiamo a lungo fra i vicoli e gli scorci colorati di azzurro, bianco e ocra dei muri fino a salire in cima ad un terrazzo, da cui ci appare la visione impagabile del vulcano El Misti, accompagnato lungo l’orizzonte dal Chachani e dal Picchu Picchu.
Giunge il momento del pranzo, siamo piuttosto affamati dopo la lunga scarpinata mattutina e decidiamo di affidarci a Wilbert che ci porta in un’ottima Picanteria all’aperto appena fuori città. La solita orchestrina peruviana ci accoglie all’ingresso, ma non ci sono turisti stranieri, è tutta gente locale, che la domenica, il giorno di festa si riunisce per ricorrenze varie. Questa volta decido di provare qualcosa di veramente tipico, il Cuy, ovvero il porcellino d’India, servito fritto e tutto intero compreso di testa e zampette, ma nessun altro del gruppo osa imitarmi.
Il mio pasto, tutto sommato gradevole, è accompagnato da moti di disgusto, rimproveri e lamentele da parte degli altri compari di viaggio, ma ormai il dado è tratto e porto a termine l’impresa, innaffiando il Cuy con succo di Papaya. El Misti guarda in lontananza la scena divertito.
Salutiamo Wilbert ringraziandolo per la splendida giornata e dopo un po’ di riposo, torniamo alla Plaza de Armas di sera, prima di un sandwich informale in un locale con musica dal vivo.
Il mattino del 29 Giugno, mentre procediamo verso l’aeroporto di Arequipa con destinazione Cuzco, ci arriva dall’Italia la notizia della scomparsa di Margherita Hack, scienziata e divulgatrice instancabile dell’astronomia e amatissima dal pubblico, che ho avuto la fortuna di incontrare svariate volte, l’ultima delle quali nel marzo 2009, in occasione di una sua conferenza tenuta a Ferrara ai nostri Venerdì dell’Universo, aveva 91 anni. Arianna la ricorda, premurosa e affettuosa verso Aldo, il marito più anziano, nel corso della cena prima della conferenza.
Arriviamo quindi a Cuzco, l’ombelico del mondo, la capitale dell’impero Inca che oggi conta 300.000 persone, dopo un’ora di sorvolo della Cordigliera con vulcani fumanti, ritrovandoci ai 3400 m di quota del nostro Hostal Inkarri, un bel residence con giardino, in cui ci viene offerto il mate de coca di benvenuto. La quota si sente e occorre fare tutte le attività con calma e naturalmente far spostare i bagagli ai facchini per non stramazzare al suolo. Ci incontriamo con Angelica, la nostra successiva guida che ci accompagnerà in una vera e propria full immersion archeologica.
Il primo sito Inca che visitiamo è l’impressionante fortezza e centro cerimoniale di Sacsayhuaman, costruita strategicamente su una collina che domina Cuzco e famosa per le sue pietre ciclopiche incastrate fra loro con una precisione inspiegabile, tanto da non far passare la lama di un coltello, alcune pesanti fino a 350 tonnellate e alte più di 9 m. Il cielo è limpidissimo, la temperatura ancora una volta gradevole e in lontananza scorgiamo qualche lama che pascola tra le rovine.
Angelica ci spiega che la pianta della città di Cuzco rappresenta un puma, la cui testa munita di denti si riflette nell’andamento zigzagante del complesso di Sacsayhuaman, voluto dall’imperatore inca Pachacuti nel 1440 d.C. Furono impiegati per la costruzione blocchi di porfido e andesite, spostati attraverso leve, corde e lavorati con martelli di pietra e scalpelli di bronzo, un’impresa titanica che durò più di un secolo e coinvolse 20.000 persone. L’area più sacra della fortezza era il tempio del sole e qui Angelica sottolinea l’importanza dell’astronomia per gli Incas.
Ancora oggi infatti, il 21 Giugno, solstizio d’inverno ( australe), viene celebrata la festa dell’Inti Raimi, il dio del Sole, la cui luce filtra all’alba nelle tre porte principali del sito. Questo luogo fu anche teatro della battaglia decisiva fra Hernando Pizarro e l’imperatore Manco Inca Yupanqui durante l’assedio finale di Cuzco.
Passiamo al sito di Qenko, il cui nome significa labirinto, è infatti costituito da corridoi di grossi massi, che ricordano un serpente, ovvero l’aldilà nella visione cosmogonica Inca,( il cielo è invece rappresentato dal condor e la terra dal puma). Al centro di un vasto anfiteatro semicircolare si trova poi un grosso masso di 6m, che da una certa angolazione somiglia ad una rana, a cui veniva attribuito il culto della prosperità e il potere della pioggia. Qui sacerdoti e astronomi sedevano su sedili di pietra ricavati dal muro circolare, per compiere le loro osservazioni e interrogare gli astri.
Sotto Qenko ci sono anche gallerie e grotte, contenenti nicchie e gradini, destinate alla meditazione.
Ci alziamo di quota e arriviamo al sito di Puca Pucara, davanti al quale cominciamo a vedere svariate donne con i tipici costumi colorati e cappelli di diverse fogge, sopratutto bombette, intente a vendere souvenirs. Il nome del luogo significa fortezza rossa e si tratta di un antico centro militare e amministrativo con funzione di vedetta, ma anche di osservatorio astronomico, vista la posizione elevata al di sopra della valle, nonchè casino di caccia per l’imperatore.
Arriviamo al punto più elevato della giornata e ai 3700 m di Tambo Machay, una costruzione in blocchi regolari costruita su tre terrazzamenti, in cui si incanala una sorgente di acqua calda che sgorga più a monte. Si trattava molto probabilmente del bagno rituale dell’Inca, destinato anche alla nobiltà.
Scendiamo di nuovo a Cuzco e un po’ affaticati visitiamo il principale e più rappresentativo tempio della città, ovvero il complesso di Coricancha, su cui è stato costruito dagli spagnoli il convento di Santo Domingo.
Il complesso originale era molto più vasto e recintato da una cornice d’oro ( il nome significa proprio recinto o giardino d’oro ) su cui hanno messo le mani prontamente i conquistadores, mettendo nel bottino anche un’enorme disco del sole ( Punchau ) realizzato nel nobile metallo e tantissime gemme e pietre preziose. Al solstizio di Giugno, i raggi del sole penetravano in una nicchia, il tabernacolo, dove l’imperatore, l’Inca, si sedeva, mentre altre nicchie dei muri erano destinate alle sue concubine, che dovevano seguirlo alla sua morte.
Distrutti e affamati andiamo a pranzo in un bel locale del centro accompagnati come di consueto dai pifferi peruviani, mentre ci si abbuffa con alpaca alla brace. Qui Giorgio, in barba ai consigli sull’alta quota si beve due Pisco sour fumando una sigaretta.
Nel pomeriggio salutiamo Angelica, che rivedremo l’indomani e gironzoliamo un po’ per la splendida Plaza de Armas di Cuzco, nel cielo blu cupo della luce pomeridiana, apprezzando sui 4 lati della piazza circondata da portici, la cattedrale, costruita usando blocchi di pietra sottratti dal sito di Sacsayhuaman, le chiese di Jesus Maria e de La Compania, tutte decisamente barocche. Al centro della piazza si erge poi la statua dorata dell’Inca Manco Capac, che secondo la leggenda conficcò il bastone d’oro nel luogo in cui doveva essere fondata la città.
Ci perdiamo un po’ tra i vicoli cercando di ritrovare il nostro hostal, poi la cena e un meritato riposo che ci aiuta ad acclimatarci. Ancora una volta rinunciamo alle osservazioni.
Il 30 Giugno siamo in partenza alla scoperta della Valle Sacra degli Incas, che si snoda per 30 km ad ovest di Cuzco fino al leggendario Machu Picchu, seguendo il corso del Rio Vilcanota che si trasforma strada facendo nel Rio Urubamba, che a sua volta alla confluenza con il Maranon, diventerà il Rio delle Amazzoni!
Iniziamo con una sosta presso un centro di recupero di fauna selvatica in cui abbiamo modo di ammirare qualche puma e due enormi condor che ci planano accanto, poi saliamo alla cittadella di Pisac, che si trova 600 m più in alto dell’omonimo paesino destinato ad essere visitato subito dopo.
Fa piuttosto freddo e la cittadella ci appare magnifica, una Machu Picchu minore, appollaiata sopra una valle orlata di terrazzamenti, da lassù dominiamo la Valle Sacra che si estende verso nord, serpeggiando tra le Ande. Angelica ci indica il Templo del Sol, eretto sopra uno sperone di roccia vulcanica, con muri orientati ancora una volta secondo precise direzioni astronomiche.
Scendiamo al paese e al suo variopinto mercato in cui abbiamo lasciato Giorgio a fotografare i tipici personaggi che lo caratterizzano. Qui sono i colori a dare spettacolo, quello dei costumi dei mercanti e quello delle merci, dei tessuti e della frutta e verdura, veramente notevole! Ci sono anche svariati Cuy vivi in un apposito recinto, pronti per essere scelti e cucinati per i clienti di un ristorantino…
Riprendiamo la marcia mantenendoci sempre sui 3500 m di quota per raggiungere il sito di Moray caratterizzato da un curioso cratere terrazzato ( 7 terrazzamenti in pietra concentrici ), in cui gli Incas facevano sperimentazioni di agricoltura, facendo acclimatare e coltivando a quote diverse cereali, patate, cotone, foglie di coca fiori tropicali. Tutto intorno le Ande cominciano a diventare veramente imponenti, con cime innevate bellissime che emergono da distese brune e gialle.
Ricuperiamo di nuovo Giorgio, sceso anzitempo per gustarsi in solitudine questa volta l’aspra bellezza della Cordigliera e ci dirigiamo verso un luogo fortemente sponsorizzato dallo stesso Giorgio, le Saline di Maras. E’ infatti dall’inizio del viaggio che il nostro compagno non vede l’ora di visitare questo sito, spiegandoci che è qualcosa di unico. “Dobbiamo visitarlo tra mezzogiorno e le due del pomeriggio, quando la stretta gola in cui si trova è ben illuminata dal sole!”andava ripetendo.
Guardiamo l’orologio e all’orario stabilito siamo alle saline, che ci sorprendono subito con la loro inquietante bellezza.
Sono più di 3000 vasche, ognuna di circa 5 mq, ricavate sul fianco della montagna già al tempo degli Incas e ancora oggi utilizzate per l’estrazione del sale. Il colore di questo varia dal bianco, bianco sporco al marrone, il primo utilizzabile dall’uomo, il secondo dagli animali, il terzo per uso industriale.
Questa incredibile situazione nasce da una sorgente sacra sotterranea di acqua calda e salata, che sgorga da un pertugio del terreno denominato Qoripuijo. L’acqua scorre e per evaporazione deposita il sale che viene raccolto in queste incredibili vasche, fitte le une accanto alle altre.
Percorriamo a piedi le saline fermandoci a fotografare gli angoli più suggestivi e Angelica ci invita ad assaggiarne l’acqua prima di condurci lungo uno strettissimo sentiero di sale sul bordo del ruscello in un punto panoramico sulla vallata, indicandoci alcuni abitanti della zona chini sulle pozze nel faticoso lavoro di estrazione.
Il sole a picco e la quota mettono un po’ a disagio Arianna che si deve stendere un po’, ma la cosa è di lieve entità e si riprende velocemente.
Dopo un doveroso pranzo in un ristorante self service, riprendiamo la marcia per l’ultimo sito della giornata, Ollantaytambo.
Dopo la disfatta di Cuzco, Manco Inca cercò di organizzare la resistenza proprio in questa fortezza, a causa della sua posizione strategica all’entrata della valle di Urubamba, ma alla fine gli spagnoli ebbero il sopravvento.
Attraversiamo la pittoresca piazza principale piena di mercatini e turisti e percorriamo, mettendoci in coda ad una lunga teoria di persone, le scale che si arrampicano sui terrazzamenti fino al tempio, di cui rimangono poche pietre. Sulla montagna di fronte, un grosso deposito aveva la funzione di granaio in una posizione strategica, rinfrescata dai venti. Scendendo ammiriamo la fontana sacra, in cui manco a dirlo il 21 Giugno si riflette il primo raggio di sole che filtra da un portale che la sovrasta ed un’altra fonte in cui agli equinozi il sole trae un’ombra chiamata “la principessa che prega”.
C’è una discreta folla, da Ollantaytambo infatti parte il treno per Aguas Calientes, ultimo avamposto prima di arrivare a quel luogo magico che è Machu Picchu! Scendendo dalla fortezza, saliamo direttamente sul trenino, cercando di sistemare alla meglio il bagaglio a mano con lo stretto indispensabile ( il resto è rimasto a Cuzco ) e il gentile personale si adopera per metterci comodi nei posti in precedenza prenotati. L’emozione e l’adrenalina salgono: questo è uno dei momenti più significativi del viaggio, quante volte avevamo sognato in passato di recarci in Perù a Machu Picchu! Arianna sta visibilmente meglio.
Il sole cala illuminando le ultime cime delle Ande mentre di fianco ci scorre il Rio Urubamba, immerso in una vegetazione via via sempre più lussureggiante. Si accendono le luci del treno, è il momento del mate de coca e del te all’anice, servito sempre con solerzia e cortesia dal personale. La gola diventa più buia e profonda, siamo scesi decisamente di quota arrivando tra uno scossone e una curva a circa 2000m.
Uno ad uno, i compagni di viaggio si abbandonano al sonno.
La stazione di Aguas Calientes accoglie i numerosi turisti che scendono dal treno alla ricerca del loro peruviano di riferimento con apposito cartello identificativo ed ecco il nostro referente di Perù responsabile che ci accompagna a piedi al vicino hotel La Pequena Casita in cui ceniamo con una Trucha ( trota ) ai ferri. Qualcuno sta guardando in tv la finale di calcio di Confederations Cup, Brasile Spagna, ci dicono che l’Italia si è battuta bene in semifinale con la Spagna, perdendo solo ai rigori.
Facciamo un giretto a piedi controllando la situazione nubi, speriamo che domani sia una bella giornata, intanto una manifestazione in onore del nuovo sindaco appena eletto con tanto di corteo con megafono, ci consiglia un veloce ritorno nelle nostre stanze.
1 Luglio, alle 5 ci alziamo, Angelica ci attende nella hall per accompagnarci al pullman che salirà gli svariati tornanti che conducono serpeggiando al Machu Picchu, il cielo fortunatamente è sereno e Venere occhieggia a est tra le sagome scure dei monti coperti di vegetazione. Solo qualche bruma si appoggia alle vette dando un tocco ancora più magico.
Troviamo il nostro pullman incolonnato con svariati altri e procediamo, l’emozione è palpabile.
Arrivati in cima, Angelica si affretta a farci passare i controlli, che chiedono di esibire il passaporto e quando sono le 6.15 e il cielo comincia a schiarirsi siamo fra i primi visitatori della giornata ad entrare nelle incredibili rovine di Machu Picchu. Ancora non ci sembra vero! Siamo da soli, senza altri turisti quando ci addentriamo tra i vicoli di questa antica cittadella nel silenzio più assoluto, un’emozione che ricorderemo per sempre.
Dobbiamo però correre per seguire Angelica che ci sta seminando tanto è agile e disinvolta nonostante la figura non proprio longilinea, per arrivare in tempo utile all’ingresso per la salita all’Huayna Picchu, la montagna che sovrasta il Machu. E’ vero che siamo scesi di quota rispetto ai giorni scorsi, ma siamo pur sempre a 2400m e salire e scendere questi antichi gradini non è poi così agevole. Ci soffermeremo con lei con più calma sulle rovine al ritorno dalla scalata.
Bruno è il primo ad esibire il biglietto prenotato al guardiano dell’Huayna Picchu, che gli fa firmare l’orario di ingresso e si sorprende dell’anagrafe del nostro compagno. Dietro si sta infatti addensando una calca di giovani e giovanissimi di varie nazionalità e noi, non c’è dubbio siamo i più anziani, confermando l’impressione che abbiamo avuto sin dall’inizio del viaggio, il Perù “non è un paese per vecchi”! Il motivo lo capiamo poco dopo, quando inizia la salita che si fa subito dura e faticosa. Ma il nostro Bruno non teme confronti con i suoi 700 km di sci di fondo che ogni anno lo tengono in allenamento.
Io e Arianna seguiamo col fiatone, ma non molliamo. Esther e Giorgio neanche sono partiti, rinunciando ad un’ esperienza un po’ troppo impegnativa. Siamo quasi a metà strada e ogni tanto ci fermiamo ammirando scorci panoramici bellissimi sul fondovalle boscoso e rigoglioso, da cui spuntano le rovine terrazzate del Machu, la cui pianta secondo la mitologia inca ricorda quella di un colibrì.
Scarpina che ti scarpina, i gradini si fanno sempre più ripidi e a volte scivolosi per l’alta umidità di queste zone, siamo infatti al confine con la regione amazzonica e seguiamo un sentiero che si sta sempre più restringendo, sprofondando sui due lati in oscure voragini. Con tenacia ci imponiamo di non mollare e proseguire. Un ultimo ostacolo, una grotta o meglio un budello tanto stretto da rischiare di rimanervi incastrati ed ecco finalmente una visione da sogno, la vetta dell’Huayna Picchu, la montagna giovane, è lì davanti a noi. Ancora uno sforzo ed io Bruno ed Arianna ci issiamo sull’ultima roccia, quella più in alto, a 2700 m, da cui si domina vertiginosamente il fondovalle con Machu Picchu e le sue meraviglie architettoniche illuminate dal primo sole dell’alba. Qualcuno si commuove…
La vista spazia in tutte le direzioni fino ai picchi innevati del Salcantay e della Veronica e sotto di noi i terrazzamenti spettacolari del Machu Picchu sembrano tagliare i pendii scoscesi, trasformando le montagne in giardini pensili, ancora più in basso, il rio Urubamba.
Dopo le doverose foto di rito, iniziamo la discesa, non meno impegnativa della salita e ricompattiamo il gruppo con Angelica, Esther e Giorgio alla base dell’Wayna, proprio di fronte alla “roccia sacra”, un monolito alto 3m e largo 7, con un profilo molto simile alla montagna sacra Putukusi, visibile sullo sfondo.
Angelica inizia quindi a raccontarci le meraviglie del Machu Picchu ( la montagna antica ). Il sito fu riscoperto soltanto nel 1911 dall’esploratore Hiram Bingham che trovò un’intera città Inca praticamente intatta, sfuggita per miracolo alle razzie dei conquistadores e rimasta per secoli nascosta dalla foresta.
Voluta probabilmente dall’Inca Pacachuti nel 1400, ancora oggi Machu Picchu rimane un mistero, non è infatti ancora chiaro se si tratti di un centro cerimoniale e religioso, un monastero in cui si formavano le ancelle che avrebbero servito l’Inca, oppure per la sua posizione, un posto di avanguardia e di osservazioni astronomiche.
Facendo un percorso a ritroso, rispetto al mattino, ritroviamo il tempio del Condor, la piazza sacra, con il tempio delle tre finestre, il tempio principale, tutto quanto costruito in pietre di granito, una sull’altra, senza cemento o altro materiale incollante.
E poi l’Intihuatana, una roccia scolpita su un rilievo al centro della piazza sacra, con funzione di orologio astronomico-agronomico, orientata da nord ovest a sud est e indicante 4 montagne sacre.
L’importanza dell’astronomia per gli Inca diventa ancora più chiara quando arriviamo presso un edificio al cui interno si trovano due catini in pietra in cui si raccoglie l’acqua piovana, un sistema ci dice Angelica, per osservare il sole quando il 14 Febbraio e 30 di Ottobre ( i giorni dello zenit ), si riflette esattamente al centro di una e dell’altra formella.
Altri riferimenti astronomici li troviamo al Torreon, il tempio del sole, in cui da una determinata finestra si possono osservare le Pleiadi, all’alba del solstizio del 21 Giugno e presso una roccia romboidale rappresentante la Croce del Sud ed orientata con la medesima costellazione, come la si può osservare il 21 Giugno al tramonto.
Camminando rapiti tra i muri e gli stretti corridoi, saliamo fino alla Casa del Guardiano da cui si gode della vista più classica e spettacolare della cittadella, sovrastata dal picco appuntito dell’Huayna. Stupendo!
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Il sole spunta da nuvole passeggere e illumina il verde brillante dell’erba e le bianche rovine, una visione magnifica.
E’ il momento di tornare dopo un doveroso timbro sul passaporto con l’immagine di Machu Picchu, ad Aguas Calientes e di nuovo col trenino ad Ollantaytambo ancora una volta confortati dal monte Veronica innevato e illuminato dal sole al tramonto.
Un’ultimo trasferimento in pullmino a Cuzco e finalmente ci ritiriamo al nostro hostal Inkalli in cui ritroviamo le nostre stanze e un sonno profondo.
Il mattino dopo, 2 Luglio, alle 7.30 ci vengono a raccogliere per il lungo trasferimento a Puno, anche se dopo qualche centinaio di m sono costretto a tornare indietro di corsa a ricuperare il telescopio di Eshter dimenticato in albergo… Ci fermiamo quindi per una rapida visita della bellissima chiesa barocca di Andahuaillas, di epoca coloniale, in adobe, con l’interno abbellito da tele della scuola Cusquena e da stucchi dorati.
Nella piazza antistante e sulle gradinate della chiesa anziane donne esibiscono cappelli di fogge sempre più particolari.
La tappa successiva prevede una sosta ai resti incaici di Raqchi, tempio costruito in onore di Viracocha, il dio creatore degli Inca, per placare la sua collera in seguito all’eruzione del vulcano Quimsa Chata. Ci aggiriamo un po’ nella giornata assolata tra i grandi muri in adobe alti 12m, fermandoci poi per qualche acquisto all’annesso mercatino prima di riprendere la marcia, il viaggio è ancora lungo….
Dopo un pranzo in cui assaggiamo le patate “oca”saliamo fino ai 4300m del passo la Raya e nel tardo pomeriggio un improvviso temporale e una sosta prolungata da parte di Esther in cerca di una banca, ci impediscono purtroppo di arrivare a Sillustani e alla laguna di Umayo come da programma. Ci dirigiamo allora direttamente a Puno e ai suoi 3900m, sulle rive del lago Titicaca.
Al nostro hotel Plaza Mayor, vicinissimo al centro, facciamo conoscenza con Edwin, colui che ci ospiterà l’indomani presso la sua casa sull’isola di Taquile al centro del lago, un uomo gentile dai tipici lineamenti inca, che ci fa un largo sorriso e ci da’ appuntamento al mattino dopo.
Passeggiamo sotto una sottile pioggerella fino al ristorante per la cena in cui assaggiamo una sopa de mais e lama asado. Ancora una volta niente osservazioni.
3 Luglio il cielo è splendido ed Edwin è puntuale nella hall ad attenderci, un rapido carico dei bagagli sulla nostra imbarcazione e si parte, ci attendono 3 ore buone di navigazione sul famoso lago Titicaca, culla della civiltà incaica e prima ancora di quella Tiahuanaco.
Prima di approdare all’isola di Taquile ci aspetta però una sosta su una delle isole flottanti degli Uros, realizzate da questa popolazione con numerosi strati di canne palustri qui chiamate Totora.
Questa popolazione, di etnia aymara e quechua, vive in realtà oggi sulla terraferma e si reca su questi isolotti solo per vendere un po’ di merce ai turisti. Salgo su una torretta un po’ ballerina e mi godo la visione dell’azzurro Titicaca, in splendido contrasto col giallo della totora e il blu del cielo.
Ritorniamo sulla nostra barca e ci mescoliamo ancora una volta con la popolazione locale: donne e bambini stanno a poppa, mentre a prua gli uomini, tra cui il nostro Edwin, seduto col borsone del Dobson sulle gambe, sono intenti a lavorare all’uncinetto, pratica che scopriamo molto diffusa e volta alla realizzazione dei tipici copricapo maschili, diversi a seconda del grado sociale e dello stato civile. Trovo Esther assieme a qualche turista tedesco sul tetto dell’imbarcazione e mi rilasso qualche minuto con il panorama del lago navigabile più alto del mondo.
Finalmente, a 35 km dalla costa siamo in vista di Taquile, un’isola di 6 kmq abitata da una popolazione molto tradizionalista e dedita all’agricoltura e veniamo accolti al porticciolo da una delegazione di varie famiglie che ospiteranno i turisti nelle loro case. Apparentemente senza sforzo si caricano i nostri bagagli sulle spalle ed iniziano a scarpinare in salita.
Noi li seguiamo a passo spedito ma ben presto la quota ci costringe a rallentare e poi a fare svariate soste per rifiatare, ma quanto dista la casa di Edwin? Ormai saremo saliti almeno di un centinaio di metri mi dice Bruno guardando il prezioso altimetro del suo orologio. Ansimando stremati, troviamo alla fine il nostro alloggio, una casa semplice con ampio terrazzo panoramico sul lago, l’ideale per le osservazioni astronomiche.
Ci vengono indicate le nostre stanze, piccole ma confortevoli e in breve ci viene preparato un pranzo a base di trota di lago che mangiamo avidamente. Un po’ di riposo ed inizio le operazioni di montaggio del Dobson, spiato segretamente da Roger, il secondogenito di Edwin, che ben presto si avvicina e mi chiede a cosa serve quello strano aggeggio. Quando gli dico che è un telescopio sgrana gli occhi e mi bombarda di domande: non si vedono infatti tanti telescopi da queste parti! Stasera, gli dico, con un po’ di fortuna vedremo le stelle, las estrellas! Consulto lo Sky Atlas sempre in sua compagnia alla ricerca di qualche nuovo oggetto per la serata e gli spiego il significato dei vari simboli: ammassi aperti, galassie, ecc.
Esther intanto ha già montato il suo Pentax 75 sulla spianata e sta mostrando al resto della famiglia le lontane cime innevate delle Ande, suscitando grande entusiasmo e curiosità. Arianna invece decide di indossare un vestito tipico di Taquile prestatole da Flora, moglie di Edwin e non possiamo fare a meno di notare la somiglianza con i costumi sardi del nuorese.
Edwin ci chiama per fare un breve giro dell’isola e ammirare il tramonto da un punto panoramico, attraversando un boschetto di eucalipti e passando accanto a qualche campo coltivato a cereali e legumi, lavorati ancora con l’aratro a mano. Eccoci sul versante ovest dell’isola in cui ci attende un tramonto infuocato: i colori a queste quote sono straordinariamente vividi e il paesaggio diventa bellissimo. Da un muretto di una vicina casa, con un curioso arco di pietra, spunta una bimbetta con in mano una gallina, la foto è doverosa, così come ne merita una il nostro temerario gruppo con lo sfondo del Titicaca.
Sulla strada del ritorno il cielo purtroppo si annuvola, mannaggia, vuoi che anche stasera saltino le osservazioni? Chiediamo ad Edwin e ci rassicura dicendo che qui il tempo è molto variabile e sicuramente più tardi si aprirà. In tutta risposta arriva una decisa grandinata, corriamo a prendere gli strumenti rimasti sul terrazzo e li portiamo al sicuro. Mah!
Mentre ascoltiamo Edwin suonare malinconicamente il charrango nella grande stanza da pranzo, sentiamo dei passi frettolosi, è Roger che entra di corsa: “Las estrellas!”, indica eccitato fuori dalla finestra e subito si precipita di nuovo all’aperto. Non so come faccia a correre così, a 4000 metri di quota, anche se è un ragazzino di 11 anni. Mi affaccio a mia volta ed in effetti le nuvole si sono diradate offrendo uno spettacolo grandioso: una Via Lattea sontuosa attraversa le costellazioni australi che si specchiano nelle placide acque del lago, il buio è totale, il vento assente ed il freddo perfettamente sopportabile, nonostante la quota e la data. Magnifico! Prendo il Dobson e con fatica lo ritrasporto sulla piazzola.
E così, oltre a Roger si ritrovano in coda allo strumento anche la sorella maggiore, lo stesso Edwin , il fratello di quest’ultimo e l’anziano nonno che in mattinata ha portato stoicamente sulle spalle il Dobson scarpinando in salita per 200 m.
Sistemo il cercatore e punto con orgoglio lo stupefacente ammasso globulare Omega Centauri, una delle perle dell’emisfero sud , osservato già in occasione di altrettanti viaggi al di sotto dell’equatore, ma sempre impressionante. Tutti sono stupiti ed increduli quando spiego che in quello strano bozzolo ci sono circa 10 milioni di stelle!
“E’ pronta la pasta !” annuncia Arianna dalla finestra. Mia moglie, ha infatti cucinato assieme a Flora incredibili spaghetti al sugo con pomodorini e olive.
Tutto il gruppo si sposta rapidamente a tavola apprezzando non solo gli spaghetti ma anche i piatti tipici locali quali la sopa de Quinoa e di nuovo la trota, che qui si pesca abbondante.
Edwin ci chiede com’è stato il nostro viaggio in Perù e dove proseguiremo.
Siamo a metà del nostro percorso, rispondiamo, e già abbiamo visto una quantità enorme di bellezze paesaggistiche e archeologiche. Forse però la parte migliore e più avventurosa deve ancora venire, visto che proseguiremo in Bolivia tra gli incredibili Salar e Lagune della riserva andina “Eduardo Avaroa”, sperando che la fortuna continui ad assisterci, visto che toccheremo i 5000 metri di quota.
Flora arriva con le tazze per il mate de coca, anche se a dire il vero dopo 10 giorni siamo piuttosto ben acclimatati alle grandi altezze. Giorgio fotografa la scena.
Roger è impaziente di riprendere le osservazioni e questa volta escono con me anche Bruno con il suo Polarie, Esther con il Pentax 75 e Giorgio con la sua imponente attrezzatura fotografica.
Raddrizzo il telescopio e mi guardo attorno… raramente ho fatto osservazioni astronomiche in un luogo così quieto e rilassante: dagli alberi scuri, a ovest filtra ancora il tenue e rassicurante chiarore della luce zodiacale, sopra la testa il cuore della Via Lattea splende di miriadi di stelle che si mescolano ad altrettante nebulosità brillanti e oscure mentre all’orizzonte sud-est lo sguardo si perde sulle acque del Titicaca, che si estendono fino a lontane cime andine.
Non abbiamo certo problemi di inquinamento luminoso visto che sull’isola manca la corrente elettrica ed il generatore viene spento alle 19.00.
Edwin mi indica la Croce del Sud, la “Cruz del Sur”, alta sull’orizzonte, le vicine Alfa e Beta Centauri, e Saturno nella Bilancia, testimoniando una buona conoscenza del cielo, cosa normale ci dice, per la popolazione di Taquile, dedita all’agricoltura ed ancora abituata a scandire il calendario agricolo con il sorgere e tramontare degli astri. Così hanno sempre fatto per secoli gli Aymara, la civiltà precolombiana nata proprio qui al Titicaca e dopo di loro gli Incas, per i quali era di fondamentale importanza lo studio dei movimenti celesti, come abbiamo avuto modo di apprezzare in tutti i siti archeologici visitati in Perù.
Mostriamo a Roger e alla sua famiglia la nebulosa Eta Carinae, lo Scrigno dei Gioielli ed altre meraviglie celesti, tra cui gli anelli di Saturno col rifrattore di Esther e tutti sono entusiasti e riconoscenti per l’esperienza vissuta. Edwin vorrebbe addirittura costruirsi un telescopio e dotare la loro casa di un vero e proprio osservatorio a disposizione dei turisti, un po’ come le famose Farm namibiane. Sarebbe proprio una bella cosa ed il cielo del Titicaca non sfigurerebbe certo con quello del Kalahari, ci offriamo di dargli tutti i consigli del caso.
Giunge però il momento per Edwin di ritirarsi, Roger domani deve andare a scuola e anche lui si deve alzare presto per i lavori quotidiani.
Noi invece restiamo ancora e mentre Bruno e Giorgio procedono con le foto astronomiche
io prendo di mira qualcosa che ancora manca alla mia personale collezione deep sky, come la nebulosa IC 2944, detta ” Pollo che corre”, per la curiosa forma che alcuni vedono nella sua parte più luminosa. Si sviluppa attorno alla stella Lambda del Centauro che infatti appare all’oculare da 40mm decisamente nebbiosa e pur avendo questo oggetto una magnitudine apparente di 4,5, la grande estensione di 75′ lo rende molto difficile …non però a 4000m e in luogo così buio!
Sempre nella stessa costellazione individuo poi il debole ed evanescente ammasso aperto IC 2948, sul prolungamento di una catena di stelline , la vicina nebulosa diffusa IC 2872 e il luminoso e tondeggiante ammasso aperto NGC 3766 ( the Pearl Cluster), di 10′ e magnitudine 5,3 ricco di stelle in un campo altrettanto ricco.
Può bastare, le forze vanno centellinate ed è meglio riposare un po’.
Il giorno dopo 4 Luglio salutiamo l’isola di Taquile e la sua allegra comunità che ci ha letteralmente adottati, per far ritorno a Puno, non prima però di aver acquistato alcuni dei loro prodotti fatti a mano ( berretti, sciarpe di lana ecc ) e aver osservato Edwin utilizzare la pianta del sapone per lavare i panni, un sapone ecologico e non inquinante assolutamente efficace.
L’indomani, 5 Luglio siamo di nuovo in partenza, questa volta per attraversare la frontiera con la Bolivia, che raggiungiamo dopo aver costeggiato a lungo il Titicaca in una mattinata grigia e nuvolosa.
Arrivati a Desaguadero, il punto di frontiera, ci immergiamo in un caos primordiale e qui l’autista ci fa scendere, dicendo che dovremo proseguire a piedi, o per chi lo desidera, in triciclo! Ci guardiamo intorno sbigottiti: carretti, gente di tutti i tipi e merci di tutti i tipi, comprese mandrie di lama, bancarelle, mercatini improvvisati, sacchi di patate, pesci…incredibile!
Arianna ed Esther si siedono su un triciclo guidato da uno sveglio ragazzino, mentre un altro trasporta il nostro valigiame attraverso la folla, verso il punto di controllo passaporti. Mi aspetto una procedura burocraticamente lunga e laboriosa, invece la cosa si risolve in pochi minuti, meglio così. Diverso invece è riuscire ad uscire con la jeep del nostro nuovo autista boliviano Omar dal caotico parcheggio in cui è riposta ed in cui vige la legge del più furbo.
Alla fine ce la facciamo e siamo in rotta per Tiahuanaco, centro archeologico e testimonianza di una delle culture più antiche del sudamerica, risalente a 3000 anni fa, quando improvvisamente ci troviamo incolonnati. Omar, ci guarda rassegnato:” Police control…”ci dice, con una faccia che fa presagire una lunga lunga attesa. E va’ be’. Ci mettiamo comodi, ma un militare ci fa scendere indicandoci una baracca in cui vengono controllati i passaporti.
Omar prova a spiegare con cortesia che siamo turisti ma alla fine deve cedere e siamo accompagnati fuori, probabilmente, ci dice, apriranno le valigie per controllarle. Una bella seccatura…Tuttavia, dopo aver osservato i modi bruschi e autoritari di un graduato con i suoi sottoposti, sguinzagliati tra i vari veicoli alla ricerca di chissà che cosa, veniamo congedati e possiamo riprendere il cammino. Il primo impatto con la Bolivia ci lascia un po’ perplessi…
Arrivati a Tiahuanaco, dopo un veloce pranzo nella piazza pricipale del piccolo pueblo, ci apprestiamo a visitare il complesso archeologico risalente ad un periodo compreso tra il 200 e il 600 d.C, sotto la guida di Oscar, un giovane ben preparato ed entusiasta del suo lavoro. Dopo averci mostrato una curiosa pietra forata con funzione di altoparlante, appoggiata lungo il sentiero, saliamo su una specie di collina, ciò che rimane dell’antica Akapana, una piramide terrazzata alta 18m sulla cui cima esisteva un tempio, poi distrutto dagli spagnoli.
Dall’alto lo sguardo spazia all’infinito nell’aria tersa dei 3500 m e piccoli cumuletti bianchi si scorgono nel cielo blu fino al limite dell’orizzonte. Qui Oscar ci mostra una vasca realizzata in andesite, una pietra durissima, che un tempo, riempita d’acqua aveva la funzione di osservatorio solare e stellare, come già avevamo visto a Machu Picchu. Scendiamo quindi al tempietto semisotterraneo, una stanza rettangolare sulle cui pareti sono infisse moltissime cabezas clavas, o teste chiodo, una diversa dall’altra con al centro tre stele in arenaria rossa tra cui l’Estela Barbada.
Ci spostiamo quindi al tempio del Kalasasaya, una grande piattaforma, con funzioni religiose e astronomiche, visto il suo orientamento, che permette di segnalare solstizi ed equinozi e osserviamo curiosi la Porta del sole o Pumapunku, una porta aperta sul mondo dell’aldila’, ricavata da un unico blocco di andesite di 10 tonnellate, alta 3m e larga 4, che presenta sull’architrave un bassorilievo enigmatico: il cosiddetto “dio dei bastoni”, antropomorfo, con in mano due scettri a forma di serpente e circondato da 48 figure alate ( forse un calendario astronomico), alcune con testa umana, altre con testa di condor.
Questo blocco di roccia, così come altri furono ricavati probabilmente da una cava sulle rive occidentali del lago Titicaca, a quasi 10 miglia di distanza! E’ chiamata Porta del sole poichè qui all’equinozio di primavera si può osservare il sole sorgere al centro della porta. Su consiglio di un nostro vecchio compagno di viaggi misuriamo un effettivo cambiamento di orientazione dell’ago di una bussola avvicinandola al monolito. Oscar annuisce, ma la spiegazione non ha nulla di misterioso, visto che la roccia contiene molto ferro e magnesio ed è quindi assolutamente normale che la bussola “impazzisca”quando vi si trova vicina.
La visita prosegue con i due monoliti Fraile e Ponce, i guardiani del tempio, con vestiti cerimoniali e simboli di potere e al museo attiguo in cui ammiriamo il monolite Bennet, maschere cerimoniali, gioielli, una curiosa mummia avvolta in un bozzolo di canapa e svariati crani allungati artificialmente, una pratica allora in uso tra i nobili.
Ringraziando Oscar riprendiamo la marcia per La Paz, capitale della Bolivia, con 700.000 abitanti, la capitale più alta del mondo,che raggiungiamo in serata. L’impatto è a dir poco raccapricciante, la città satellite di El Alto,che contiene un numero simile di abitanti, situata a 4100 m si trova sul bordo di un allucinante cratere in cui si ammassano alla rinfusa i grattacieli di La Paz e case fitte come in un alveare, che sprofondano verso un baratro inquietante. Ci sfilano accanto fogne a cielo aperto, misere baracche e un traffico che diventa via via sempre più convulso, fatto di camioncini sgangherati pieni di gente e sopratutto di pulmini-taxi che si infilano dappertutto.
Viaggiano con le porte aperte in modo da raccogliere al volo i clienti, chiamati a gran voce col megafono da un’apposita addetta che contribuisce ad alzare a livelli intollerabili il caos di clacson strombazzanti.
Tutti tacciono sulla jeep ed attoniti e stralunati veniamo depositati al nostro Hostal Naira, finalmente un po’di pace e tranquillità in quella che è probabilmente la città più brutta che ho mai visto.
Qui facciamo conoscenza con Marta, l’addetta della Tusoco, tour operator locale, e con lei facciamo il punto sui prossimi impegnativi tour che ci aspettano i giorni successivi. Una buona cena e poi finalmente un po’ di riposo.
6 Luglio, una bella giornata di sole ci invita ad un giro a piedi della città in compagnia di Lidia, la nostra nuova guida. Ci accorgiamo di trovarci con l’albergo in una zona molto centrale, vicinissimi alla chiesa di San Francisco, situata nella piazza omonima, il caos è sempre elevatissimo, ma lentamente ci stiamo abituando. Salendo su un cavalcavia ci accorgiamo di numerosi lustrascarpe, i lustrabotes, spesso provvisti di passamontagna nero, persone che vogliono mantenere l’anonimato trovandosi costrette a quell’umile occupazione da fattori contingenti.
Non può mancare di incuriosire e anche preoccupare l’intricatissimo intreccio di cavi elettrici, che pendono da ogni dove e fissati alla meglio a pali e pareti di edifici, un vero incubo per gli elettricisti!
Atraversiamo Plaza Maurilio in cui si affaccia la cattedrale barocca di Nuestra Senora de La Paz, i palazzi del governo e del parlamento, per arrivare poco dopo alla chiesetta di Santo Domingo in cui si stanno celebrando battesimi e in cui tutti esibiscono vestiti tradizionali coloratissimi. Poco dopo siamo davanti alla casa del più importante artista di La Paz, Alberto Medina, situata in un tranquillo quartiere.
Lidia sta celebrando la vita e le opere dell’artista, quando l’anziano pittore fa capolino dall’uscio e ci invita a salire per osservare i suoi capolavori . Saliamo incuriositi le scale della piccola casa che si aprono sulla sala espositiva letteralmente tappezzata di dipinti, disegni, acquerelli e qua e la’ qualche statua. Lo stile è indubbiamente personale e alcune opere veramente notevoli, tanto che tutti alla fine acquistiamo qualcosa. Per ringraziarci Medina esegue in diretta un ritratto ad Arianna, ad Esther e alla nostra guida e ci dà appuntamento ad Ottobre a Milano quando verrà ad esporre una sua mostra. Ci saremo.
Non è ancora il momento di pranzare poichè ci attende il Mercado de la Hechiceria, il mercato delle streghe, in cui anziane donne vendono piante medicinali, intrugli con poteri magici, amuleti e feti mummificati di lama. Qui Arianna cede alla tentazione di un consulto con uno stregone, che interpreta il futuro facendo cadere foglie di coca su un piatto…
Poi il mercato dei fiori, anche sei di fiori in realtà se ne vedono ben pochi, sostituiti dalle merci più disparate. Salutiamo Lidia e pranziamo in un ristorante veramente caratteristico, accanto al Museo della Coca, che visiteremo subito dopo, fra esaurienti spiegazioni sulla foglia sacra, già usata al tempo degli Inca e i suoi derivati sia medicinali che purtroppo allucinogeni.
Cerchiamo di riposare un po’ anche perchè in serata ci attende il pullman notturno che ci deve portare a Uyuni, viaggeremo tutta notte per lo più su strade sterrate, una situazione non proprio rilassante. Fortunatamente il pullman si rivela comodo e moderno, ci viene servita addirittura la cena a bordo, che consumiamo in compagnia di una quantità di turisti nordeuropei, naturalmente tutti ragazzi…
Una decisa perturbazione ci accompagna tutta notte con qualche pioggia e sul fare dell’alba, dopo 10 ore di viaggio e 600 km percorsi, la situazione climatica migliora decisamente e il cielo si rasserena quando entriamo a Uyuni, un paesino colorato e rilassante a 3600m di quota. Dopo una doverosa colazione a base di dulce de leche, incontriamo la signora Patricia per un ulteriore briefing ed il nostro giovane autista Orlando, che avrà l’importante compito nei prossimi giorni di salire e scendere le Ande con la sua jeep su strade appena abbozzate spesso sul ciglio del baratro e di riportarci sani e salvi a La Paz.
Per ogni evenienza abbiamo con noi anche un telefono satellitare, ma speriamo vivamente di non doverlo usare.
E’ il 7 di Luglio ed oggi inizia la parte decisamente più avventurosa del viaggio, quella meno definita, con più incognite, ma sicuramente la più spettacolare. C’è un misto di trepidante attesa e preoccupazione nei nostri volti, da un lato la voglia di vedere con i propri occhi gli straordinari panorami che ci attendono alla riserva andina Eduardo Avaroa e dall’altro l’ansia per le quote altissime che toccheremo e gli intrinsechi pericoli del percorso.
Si parte. Pochi km ed ecco che Orlando si ferma subito per indicarci il cimitero dei treni, alle porte di Uyuni, la sosta è doverosa per qualche foto alle vecchie locomotive arrugginite abbandonate su binari morti, una vera e propria stazione alla fine del mondo.
Da lì infatti inizia il vero deserto, piatto, pietroso e rossiccio, la strada è buona, anche se naturalmente sterrata e ci sfilano accanto i piccoli paesini minerari di San Cristobal e Culpina k, il primo con una bella chiesetta in cui sostiamo un attimo e una grandissima miniera di argento, zinco e piombo.
Proseguiamo alla Valle de Las Rochas, disseminata di capricciose formazioni rocciose in cui facciamo un pic-nic sotto lo sguardo di strani roditori chiamati Viscacce a metà tra i topi e i conigli. In lontananza anche qualche Nandù emerge dalle sterpaglie andine.
La pista ora si arrampica in salita sulle pendici delle Ande e dei suoi maestosi vulcani, fino ad un passo a 4610m, mio personale record di altitudine, finora senza alcun problema. Tra le rocce si individuano verdi incrostazioni di muschi, io e Arianna ricordiamo di averne visto uno gigantesco in Cile nel ’99, che aveva più di 500 anni. Ci fermiamo per una foto alle sottostanti lagune Khara e Capina, di colore azzurro tenue e ricche di borace, un sale di Boro, poi sul far del tramonto eccoci alla stupefacente Laguna Colorada (4300m), dominata dal vulcan Pabellon e così chiamata per il colore arancione intenso generato da sedimenti minerali e dai pigmenti di alcuni tipi di alghe microscopiche ( dunaliella salina) di cui sono ricche le acque.
Sulla sua superficie pascolano una gran quantità di fenicotteri ( se ne contano almeno 3 specie, fenicottero andino, cileno e di James ), che abbelliscono e impreziosiscono questa indimenticabile laguna. Scesi dalle jeep rimaniamo a lungo assorti ad ammirare e a fotografare questa bellezza naturale che ci regala una variazione cromatica con il calare della luce, dal porpora al viola al mattone in magico contrasto con i gialli cespugli di Paja Brava , il blu del cielo ed il bianco del ghiaccio e del sale.
Il nostro alloggio in cui arriviamo poco dopo a dir la verità è un po’ meno splendido, trattandosi di uno spartanissimo rifugio perso nel nulla e spazzato dal vento, chiamato Huayllajara in cui ci sistemiamo alla meglio in uno stanzone con 5 letti e una temperatura simile a quella esterna ( -7 !). Secondo l’altimetro di Bruno ci troviamo a 4400 m e complice il cielo sereno, a cena si fanno i doverosi progetti per la notte osservativa.
Arianna ci guarda perplessa sotto il pesante berretto, mentre ci versa la sopa bollente: ” Ma siete proprio sicuri di uscire stasera, con questo freddo ? Non so come fate!”. Ma la decisione è presa, nonostante la stanchezza accumulata, il freddo e la quota, andremo fuori… quando capiterà mai di osservare un cielo simile?
Di giorno il suo blu profondo ci ha ammaliato esaltando i colori giallo, ocra e arancione del paesaggio, ora, dopo il crepuscolo, siamo tutti immobili sotto una coltre nera di velluto, in cui nubi oscure, brillanti e stelle luminosissime si alternano le une sulle altre in una sovrapposizione incombente e tridimensionale. Mai visto nulla del genere…
L’intricato sistema di nubi oscure tra Ofiuco e Scorpione, la famosa “Pipe Nebula”, diventano la parte posteriore di un gigantesco cavallo nero che si completa frontalmente con altre nubi scure e filamentose rare a vedersi in visuale, che arrivano fino ad Antares. Luce zodiacale, Gegenschein, Banda zodiacale e Airglow sono addirittura banali tanto sono facili da individuare. Il Sacco di Carbone fuoriesce dalla Croce del Sud e sembra quasi di poterlo toccare, così come emerge prepotentemente dal fondo biancastro della Via Lattea l’ammasso stellare M7 dello Scorpione, proprio alo zenit.
Facendo attenzione, poi, ad occhio nudo si possono contare tutte le nebulose e gli ammassi fra Sagittario, Serpente, Scorpione e Ofiuco, quando normalmente serve almeno un binocolo ( M8, M22, M5, M16, M17, M24…tanto per citarne alcuni ) e nonostante gli occhi si abituino via via al buio, il fondo cielo continua a rimanere assolutamente nero con stelle e Via Lattea che contrastano incredibilmente.
“Massi, mi dai una mano un secondo con Sigma Octantis?”. Bruno mi riporta alla realtà, chiedendo un aiuto a puntare la stella polare del sud con il suo Polarie e in quel momento mi accorgo della Piccola e Grande Nube di Magellano molto basse sull’orizzonte sud, le avevo quasi perse in mezzo a questo sfavillio di stelle.
Battendo ogni tanto i piedi che tendono a congelarsi, prendo di mira col Dobson la Carena, e sul bordo nord ovest della famosa Eta, individuo prima l’ammasso aperto NGC 3293 ( mag. 4,7, dim 6′), medio piccolo e piuttosto luminoso e poi con qualche difficoltà la vicina nebulosa NGC 3324 chiamata anche “Gabriela Mistral”, in onore del premio nobel e poetessa cilena, il cui profilo sembra emergere dagli spazi siderali sul bordo sottile di gas e polveri della nebulosa, naturalmente nelle foto a lunga esposizione. Io infatti tutto ciò che vedo è una pallida nube di forma circolare.
Poi nel Centauro l’ammasso aperto NGC 3960 concentratissimo, medio-piccolo ( 7′ e mag 8,3 ) e dall’apparenza nebulare.
Infine mi dirigo nella Mosca, con l’ammasso aperto NGC 4815 di magnitudine 8,6, largo e sparso, proprio sul bordo del gigantesco Sacco di Carbone.
Arriva anche Orlando e gli punto Eta Carinae ed Omega centauri, poi la stanchezza e il freddo prendono il sopravvento e ci ritiriamo nella cella frigorifero della nostra stanza sotto una coltre di coperte e vestiti completamente.
8 Luglio, una nuova bella giornata ci conforta e a colazione facciamo il piano della giornata con Orlando tentando di convincerlo a portarci fino alla Laguna Verde ai confini col Cile. Egli è un po’dubbioso, i giorni scorsi è nevicato, ci dice, confermando le parole di un gruppo di italiani conosciuti all’albergo di La Paz, che non erano riusciti a raggiungerla, così come non erano arrivati ai Geyser di Sol de la Manana a causa della tormenta. Proviamo ad insistere, un gruppo di turisti tedeschi anche loro alloggiati qui ci dice che ieri ci sono stati, la stada è un po’ brutta, ma si può fare. Orlando cede, andremo alla Laguna! Ci chiede però un aiuto a caricare la Jeep, sul cui tetto facciamo stare anche il traliccio del Dobson già montato, tutto ciò mi farà risparmiare un bel po’ di tempo per le prossime osservazioni.
L’adrenalina sale, stiamo per giungere alla quota massima di questo tour in Perù e Bolivia e ai quasi 5000 m del campo geotermico di fumarole e fanghi ribollenti del Sol de la Manana!
Sul ciglio della pista comincia a comparire la neve che ben presto si alza in due alte muraglie ai lati della strada, sul sedile posteriore Bruno ci aggiorna sulla quota ” 4890m, abbiamo superato il Monte Bianco!…4900…4950!” Caspita! “Ferma qui!”. Un ordine perentorio di Giorgio obbliga Orlando ad una sosta per una foto: siamo in vista della caldera vulcanica e numerosi fumi bianchi si alzano verso il cielo, è il Sol de la Manana!
Ci addentriamo con la jeep in questo paesaggio infernale che ricorda quello di El Tatio in Cile. I getti di vapore bollente ci dice Orlando, possono raggiungere una temperatura di 200° e sollevarsi per più di 50m. Una delle fumarole è infatti particolarmente alta e rumorosa ed il suo fumo bianchissimo contrasta incredibilmente con il blu profondo del cielo, così come il suo assordante scoppiettio contrasta con il silenzio prima assoluto delle alte vette.
Ci aggiriamo per qualche tempo ad esplorare questo posto quasi alieno, tra soffioni, sbuffi di vapore e odore di zolfo, un luogo che esprime tutta la primigenia e selvaggia potenza della natura. Giorgio riesce anche a fotografare una gloria, un piccolo arcobaleno sull’ombra della propria testa proiettata contro il fumo bianco di una fumarola, un fenomeno ottico di diffrazione della luce.
Scendiamo un po’ di quota e passiamo accanto alla bianchissima Laguna Kollpa e al Salar di Chalviri, avvistando ai suoi margini le pozze termali di Aguas Calientes in cui troviamo immerso qualche coraggioso turista.
Noi però proseguiamo nel cosiddetto deserto di Siloli, una distesa di sabbia da cui spuntano strane rocce scure con diversa orientazione, modellate dal vento e dal gelo e chiamate “Rocce di Dalì”. In effetti il panorama è piuttosto surreale e richiama il Tassili algerino.
Ormai manca poco, la pista si restringe e la neve aumenta, ma tutto sommato Orlando non vede particolari difficoltà ad arrivare alla meta, la strepitosa Laguna Verde!
” Cavolo, è il Licancabur quello?”. Bruno ha ragione, il tronco di cono spruzzato di neve che è spuntato improvvisamente da una curva è il vulcano che abbiamo lasciato in Cile, sull’opposto versante nel 2004, nel corso della nostra visita alle lagune Miscanti e Minique. Alto 5916m, e’ veramente un’emozione ritrovarlo qui in Bolivia come sfondo ad un’altrettanto spettacolare laguna.
Arriviamo sul bordo di un’altura e qui i nostri occhi si riempiono di colori, paesaggi ed emozioni fortissime: la Laguna verde è lì di fronte a noi. Ancora una volta rimango sopraffatto dalla bellezza della natura e ancora una volta mi rendo conto che nessuna foto, nessuna ripresa, per quanto bella e professionale potrà mai rendere giustizia a questi luoghi, che abbiamo la fortuna di vedere dal vivo.
Siamo tutti inchiodati davanti a questo spettacolo, ancora non riesco a credere che ce l’abbiamo fatta.
La laguna è verde acqua, ma il colore cambia continuamente ora si fa più chiaro ora più intenso, basta una nuvola che copre il sole o una folata di vento e le sfumature cambiano, è di una bellezza infinita, incorniciata dalla neve dal ghiaccio e dal bruno Licancabur, che la guarda dall’alto e vi si riflette.
Anche Giorgio, in genere di poche parole si lascia andare: “Accidenti, ne valeva proprio la pena…”
“Come mai questo colore?” chiede Esther. Pare, risponde Orlando, che sia ricca di metalli pesanti come arsenico e piombo che la rendono così bella, ma anche estremamente tossica.
Arianna con il suo i-phone scatta una panoramica da spedire via facebook a chi è rimasto a casa, ma è già ora di riprendere la marcia e a fatica distogliamo lo sguardo e torniamo sulla jeep.
Pranziamo presso una baracca di fronte alle pozze termali di Aguas Calientes, ma non cediamo alla tentazione di farvi un bagno, la spedizione è ancora in buona salute e non vogliamo tirare troppo la corda, non si sa mai…
Si prosegue, facciamo la strada a ritroso e ripassiamo accanto alla Laguna Colorada, questa volta nel suo lato occidentale con un’acqua decisamente più arancione, sembra vi abbiano versato dentro secchi di vernice!
Ma il tempo sta cambiando, le nuvole diventano più minacciose e quando alla tappa successiva arriviamo all’Arbol de Piedra, una roccia simile ad un fungo, il cielo è totalmente coperto e comincia a scendere qualche fiocco di neve. Orlando fa una faccia preoccupata guardando il nuvolone nero a nord, dove siamo diretti.
Infatti di li’ a poco la debole nevicata si trasforma in bufera e ci piantiamo nella neve con la jeep.
Tutti fuori, un’abile manovra e Orlando si toglie dall’impaccio, anche la neve così velocemente come era arrivata, se ne và e in lontananza scorgiamo tra le nuvole che si diradano il nostro incredibile albergo perso nel nulla, la “Tayka del deserto”, alla ragguardevole quota di 4600m ai piedi del monte Ojo de Perdiz, l’occhio di pernice.
L’albergo è inaspettatamente bello e confortevole, le camere dotate di doccia con acqua calda e c’è anche una grande sala adibita ai pasti e al relax. Ci voleva!
Aspettando la cena ci mettiamo a guardare uno spettacolare tramonto, le nuvole della perturbazione pomeridiana si stanno aprendo, preludio ad un’altra splendida stellata serale. La cena è ottima e abbondante, innaffiata da un buon rosso boliviano, che ci manda direttamente in branda nonostante le meraviglie celesti che ci attendono fuori al gelo. D’altra parte oggi è stata una giornata veramente intensa e anche se con un po’ di rimorso, cediamo alla stanchezza.
9 Luglio, Orlando ci attende nell’aria frizzante del mattino per caricare la jeep, il sole radente illumina i bassi cespugli gialli che spuntano dal deserto pietroso dove due coraggiosi ciclisti francesi che alloggiavano con noi, si mettono in sella per tentare di raggiungere la Terra del Fuoco!
Questa è un’altra giornata memorabile, infatti mentre lentamente scendiamo di quota, passiamo di fianco ad altre spettacolari lagune, come la Honda, bellissima, con nuvolette che si riflettono sull’acqua azzurra, la Chiarkota, trasparente, la Hedionda, azzurro più tenue, ma piena di fenicotteri e molto scenica ed infine dopo aver ammirato vigogne al pascolo e pernici zompettanti, l’altrettanto bella Canapa, che osserviamo prima di sostare al mirador del volcan Ollague di 5870m alto e fumante.
Approdiamo quindi al Salar de Chiguana, attraversato dalla ferrovia resa famosa dai banditi Butch Cassidy e Sundance Kid, uccisi dai soldati boliviani un po’ di km ad est al paesino di San Vincente.
Scendiamo di quota e a 3600 m entriamo in un altro luogo magico è unico al mondo: il Salar di Uyuni!
Con una superficie di 12.000 kmq è il deserto di sale più grande del mondo, ciò che resta di un enorme lago preistorico evaporato, contiene qualcosa come 64.000 tonnellate di sale e si estende veramente a perdita d’occhio in tutte le direzioni. La sua superficie bianchissima alla luce del limpido sole ferisce gli occhi se non si indossano adeguate protezioni e scendendo dalla jeep lo troviamo ricoperto da qualche sottile pozza d’acqua azzurrina, residuo della pioggia caduta alcuni giorni fa, che rende il tutto ancora più spettacolare.
La nostra marcia continua e poco dopo siamo in vista di Incahuasi o Isla del Pescado, chiamata così poichè in lontananza ricorda la forma di un pesce. E’ formata da un misto di roccia vulcanica e calcarea, si alza fino ad un centinaio di m dalla superficie di sale ed è ricoperta da un incredibile bosco di cactus columnares, alcuni veramente enormi e quindi antichi, visto che crescono 1 cm all’anno.
C’è molto turismo e ci fermiamo a mangiare qualcosa nell’unica locanda di Incahuasi, prima di arrampicarci tra i cactus spinosi e ammirare dall’alto il panorama mozzafiato del Salar, un immenso mare bianco in contrasto con il cielo blu purissimo. Un altro luogo che rimarrà per sempre nei nostri ricordi.
Quando è ormai pomeriggio inoltrato arriviamo ai margini del salar, quasi sotto al vulcano Tunupa ( 5200 m ), dove si trova il nostro Hotel, la Tayka del Salar, naturalmente fatto di sale!
Prendiamo possesso delle nostre stanze, anche stavolta più che dignitose e dopo cena ci prepariamo per la notte osservativa, l’ultima di questo incredibile viaggio.
Subito fuori dall’hotel, sotto una balaustra di legno c’è l’orizzonte sud , il più interessante astronomicamente, completamente sgombro, con una visione a perdita d’occhio sul salar, è lì che porteremo la nostra attrezzatura.
” Mi date una mano?” Esther è un po’ in difficoltà nel trasporto dei suoi cavalletti e un po’ alla volta sistemiamo tutta la strumentazione al riparo delle poche luci di un vicino villaggio, il cielo è a nostra disposizione, splendido, nero e pieno di stelle come sempre. Forse leggermente meno “scolpito”delle sere in altissima quota ma pur sempre eccezionale.
Appoggio lo Sky Atlas su un grosso masso e cerco come di consueto qualche oggetto australe che ancora manca all’appello.
Prendo di mira tanto per cominciare il Centauro e qui molto vicino alla stella Iota, individuo col Dobson la bella galassia NGC 5102, chiamata anche “fantasma di Iota Cen”, poichè la luminosità della stella ne disturba l’osservazione, tanto da farla apparire un tenue riflesso nell’oculare. Ma avendo l’accortezza di posizionare la stella appena oltre il bordo dell’oculare ecco che questa galassia lenticolare, appare in tutto il suo splendore di magnitudine 9,1, allungata ( 2,8’X8,7′) e frastagliata.
Nelle vicinanze ecco la galassia peculiare NGC 5253, peculiare perchè simile alla più famosa M82,
ha una luminosità attorno alla 10,9 ed appare all’oculare da 25mm concentrata e tondeggiante, anche se nelle foto ha la forma di fuso ( 5’X1′,9).
Poi sempre nella stessa costellazione il giovane ammasso aperto NGC 5662, luminoso ( mag.5,5) ed esteso ( 30′ ), assomiglia ad un M35 schiacciato.
” Esther, guarda un po’ mica male questa foto della Via Lattea, direi che il Polarie è stazionato proprio bene!”Bruno ci invita ad una visione delle foto appena scattate, devo dire veramente ben riuscite.
Il tempo di vedere un bel bolide bianco giallo e sposto il telescopio nel Lupo inquadrando altri due ammassi aperti, NGC 5593, visibile come una catena di stelline, di 10’di estensione e NGC 5749, un piccolo rombo di 10′ e mag.8,9.
Arrivo al confine tra Norma e Lupo e qui trovo l’oggetto più bello della serata NGC 5925, un concentratissimo ammasso aperto, un pallone nebuloso di 20′.
Una bassissima occhiata alle due Nubi di Magellano, con i loro tesori australi e riteniamo di poter archiviare astronomicamente questo viaggio facendo ritorno alle nostre stanze.
Il sonno però è di breve durata, alle 4.00 infatti siamo già nella sala colazioni poichè ci attende la visione dell’alba in mezzo al Salar, l’ultima grande emozione di questo tour.
Fuori è ancora buio e ci salutano a sud est Sirio e Canopo ed un Orione ribaltato. Carichiamo la jeep e Orlando parte deciso per il centro del Salar in cui arriviamo dopo un’ora circa.
Nel frattempo la luce è aumentata e un’impressionante e violetta ombra della Terra si staglia ad Est, segnando un limite nettissimo con l’infinita distesa bianca di sale, che potrebbe essere tranquillamente scambiata per ghiaccio visto il freddo intenso che si patisce all’esterno della jeep.
Ai primi raggi di sole che sbucano dal Tunupa, le nostre ombre lunghissime si perdono all’infinito verso lontane montagne deformate e allungate da fenomeni di miraggio superiore, una visione così incantevole da valer qualche disagio.
La Paz è lontana per cui ci mettiamo in marcia e dopo qualche ora eccoci al salar di Coipasa, più piccolo del precedente, ma sempre immenso e magnifico, con una maggior quantità d’acqua sulla sua superficie e caratterizzato dalla presenza di svariati lavoratori intenti nell’estrazione del litio. Dopo 3 ore di cammino usciamo dalla zona dei salar e ci avviciniamo di nuovo alle Ande, il terreno è ora un miscuglio di sabbia e sale con qualche raro arbusto, che segna il ritorno della vegetazione, troviamo anche alcuni vecchi ruderi di una chiesa nelle vicinanze del piccolo pueblo di Sabaya, in cui Arianna cerca inutilmente la Saltena, una sorta di focaccia locale con formaggio.
Un gruppo di lama sullo sfondo delle Ande completa il quadretto.
Ci fermiamo poco dopo per un sandwich preparatoci da Orlando, sul ciglio della strada sterrata, di fianco a uno sterminato campo di ciuffi di Paja Brava: ce ne sono di tutte le dimensioni e di diverse tonalità di colore, alcuni curiosamente raggruppati in famigliole, con due o tre più grandi al centro e più piccoli attorno.
Sembra quasi di vederli muoversi lentamente mentre si radunano in questi sperduti e misteriosi luoghi di riunione, per prendere importanti quanto imperscrutabili decisioni. A noi umani non è dato sapere…
Mentre siamo assorti a fantasticare su questi strani vegetali, ogni tanto passa un camion o una corriera che sollevano una gran quantità di polvere trasportata lontano dal vento.
Il viaggio riprende lungo e stanco, ormai sta calando la tensione di queste tre intense settimane e spesso si dorme. Ci ridestiamo solo quando alle porte di La Paz ci appare all’orizzonte la sagoma innevata e bellissima del vulcano Illimani, uno dei simboli della Bolivia, prontamente fotografato assieme all’altra lontana cima del Potosì.
El Alto, ci accoglie ancora una volta con il suo caos allucinante e senza regole, ma questa volta siamo preparati.
Non altrettanto preparato è Orlando che deve chiedere diverse volte spiegazioni per trovare il nostro hotel.
Ma alla fine ce la facciamo, ancora una notte nella capitale boliviana e il pomeriggio successivo iniziamo il lunghissimo ritorno in patria.
Che dire, è’ stato un viaggio astro-turistico meraviglioso, ricco all’inverosimile di suggestioni e momenti da ricordare, sia di giorno che di notte e mai come in questa occasione, rispetto ad altre avventure vissute passato, il cielo ci è sembrato così vicino e straordinario.
LE FOTO DI AMBIENTE SONO DI: Massimiliano Di Giuseppe, Arianna Ruzza, Esther Dembitzer e Bruno Giacomozzi
LE FOTO ASTRONOMICHE SONO DI Bruno Giacomozzi
Sul sito http://www.astrofilisusa.it l’articolo di GIORGIO MASSIGNANI:
LA FANTASTICA VISIONE COSMICA DEGLI INCA